lunedì 7 agosto 2017

Di che "feccia" parlano?

Nel veronese, ieri pomeriggio, due manifesti affissi illegalmente, probabilmente di notte, gridavano in nero: "Fuori la feccia". E a campeggiare su tutto un evidente simbolo fascista.
Un'oretta dopo, in quella silenziosa e incandescente terra compresa tra il mantovano e il modenese, in un campo che sfila sulla destra dell'automobile, una ventina di giovanotti nordafricani e pachistani, nel sole appena velato delle tre di una domenica pomeriggio torrida, chini al suolo raccolgono grondanti prodotti agricoli e li impilano in cassette che probabilmente da questa mattina sono in distribuzione presso mercati e supermercati nazionali e locali.
Da vent'anni, in molte regioni d'Italia, assisto a scene simili. In Sicilia e in Puglia, all'inizio del Duemila, i nuovi schiavi del caporalato venivano pagati al massimo trenta euro a giornata, che cominciava la mattina presto, ben prima del sorgere del sole, e finiva alla sera tardi, senza diritti, senza malattia, senza nulla. In quelle zone, nelle terre in cui i nuovi schiavi raccolgono i prodotti destinati a noi, non passano mai la Guardia di finanza, i sindacati, lo Stato. Lì il silenzio è assoluto. Assordante. La "feccia" è al lavoro per noi, in silenzio. China. Resta però il reale dubbio su chi incarni veramente la feccia: quei lavoratori sfruttati o quei razzisti che di giorno mangiano i frutti del lavoro di quei nuovi schiavi e di notte li vorrebbero deportare come già i loro padri e nonni fecero con oppositori politici, democratici, ebrei, rom e altre persone capaci di libero pensiero?
Facile fare i razzisti e riempirsi la bocca di qualche slogan idiota ma tremendamente efficace nei confronti delle menti piccole quando si vive in un Paese democratico e si ha la pancia piena...