martedì 27 settembre 2016

Le Quattro giornate di Napoli

Le Quattro giornate di Napoli (27-30 settembre 1943) furono un episodio storico di insurrezione popolare avvenuto nel corso della seconda guerra mondiale tramite il quale, i civili, con l'apporto di militari fedeli al cosiddetto Regno del Sud, riuscirono a liberare la città partenopea dall'occupazione delle forze armate tedesche.
L'avvenimento, che valse alla città di Napoli il conferimento della medaglia d'oro al valor militare, consentì alle forze Alleate di trovare al loro arrivo, il 1º ottobre 1943, una città già libera dall'occupazione nazista, grazie al coraggio e all'eroismo dei suoi abitanti ormai esasperati ed allo stremo per i lunghi anni di guerra. Napoli fu la prima, tra le grandi città europee, ad insorgere con successo contro l'occupazione nazista.

Ripercorriamo insieme a Camillo Albanese, autore del libro dal titolo “Napoli e la seconda guerra mondiale” quei giorni tanto drammatici ed eroici.
Torniamo a Napoli. Il 20 settembre, all’altezza di Capri, si videro delle navi che sembravano far rotta verso Napoli; si ritenne che lo sbarco delle truppe anglo-americane fosse ormai imminente. Il comando germanico, in previsione dei combattimenti che si sarebbero avuti in seguito allo sbarco e per impedire che i napoletani potessero affiancare le truppe anglo-americane, ordinò l’evacuazione di tutta la fascia costiera da Punta della Campanella fin quasi a Sorrento. Immaginate a quanti altri disagi fu sottoposta la popolazione della zona costiera. Fiumane di persone furono fatte sloggiare dalle proprie abitazione e costrette a rifugiarsi nel retroterra senza sapere dove poter trascorrere la notte, dove e quando poter mangiare e bere; tutto questo accadeva mentre il colonnello Scholl, avendo constatato che il bando del 22 settembre (con il quale aveva ordinato il reclutamento di tutti i giovani) era stato disatteso, emanava un ultimatum tre giorni dopo. (…)

Nei giorni che seguirono si videro scene drammatiche, interi caseggiati circondati, uomini strappati dalle loro case, ammassati per strada sotto la minaccia dei mitra che ogni tanto facevano sentire la loro sinistra voce per aumentare il terrore e dissuadere i parenti ad avvicinarsi. L’intensificarsi dei rastrellamenti portò in quei giorni a razziare circa ottomila persone, buona parte delle quali furono mandate nel campo di concentramento di Capodimonte, altre consegnate agli uffici di polizia italiani perché venissero accompagnati ai centri di raccolta. Molti commissariati, invece di eseguire l’ordine, lasciarono liberi i malcapitati fornendo loro anche armi. (…)
All’alba del 28 la rivolta scoppiò quasi contemporaneamente in vari punti della città; la cosa sorprendente fu che non era stata organizzata, non c’era un piano strategico generale, una mente coordinatrice. Ciascun gruppo agiva all’interno del proprio quartiere e non era in contatto con altre formazioni. Ciò se da un lato poteva rappresentare un limite, dall’altro permetteva ai partigiani di muoversi con sicurezza tra le strade e le stradine della loro zona, di cui conoscevano i rifugi, i vicoli senza sbocco, i fondachi, i portichetti, quindi erano avvantaggiati rispetto al nemico.
Data questa situazione, si procedeva a compartimenti stagni ma non furono rari i casi in cui ci furono sconfinamenti nelle aree limitrofe quando ci si accorgeva che occorreva rinforzare le postazioni.
Da quanto è dato sapere, la scintilla scoppiò in un vicolo del quartiere Avvocata. Qui una pattuglia tedesca sfondò il portone di un calzaturificio per forniture militari e si dette a saccheggiarlo. Gli abitanti della zona, inferociti, cominciarono a sparare sui militari, che risposero al fuoco. A quel punto non si capì più nulla: si sparava da tutte le parti, dai portoni, dalle finestre, dai balconi, dagli angoli delle strade. Una giovane donna, Maddalena Cerasuolo, detta Lenuccia, fu l’eroina di quello scontro (fu poi insignita della medaglia di bronzo). La ragazza, senza preoccuparsi dei proiettili che le sibilavano intorno, correva avanti e indietro per rifornire di bombe a mano i combattenti.
Nella stessa ora l’insurrezione scoppiò nei quartieri più popolari di Napoli: il Vasto, la Sanità, la zona della Stazione e di seguito, a poca distanza di tempo, in piazza Cavour, via Duomo, corso Umberto, piazza Plebiscito, all’incrocio del Museo, là dove convergono quattro strade: via Salvator Rosa, vie Enrico Pessina, via Museo, via Santa Teresa. (…)
“Fu – secondo la testimonianza di Antonino Tarsia in Curia – una guerriglia accanita e spietata condotta con estrema violenza nella quale gruppi, gruppetti e persino individui isolati sostennero azioni cruente – determinate da contingenze di luogo e di tempo – le quali ebbero una continuità nel loro svolgimento dovuta, più di ogni altro, al frazionamento delle forze tedesche su tutto il territorio della città di Napoli”.
La sera del 28, Napoli si presentava come un campo battaglia. Il popolo, guidato soprattutto dall’odio verso i nazisti prodotto dalla sofferenza per le iniquità subite, ora li costringeva a ritirarsi. I successi degli scontri, nonostante i tanti morti e feriti, esaltarono ancor più gli animi, caricando di maggior foga le azioni guerresche. Si continuava a combattere in via Santa Teresa, dove all’altezza di Materdei furono erette barricate sia disselciando la strada sia rovesciando una vettura tranviaria; qui gli scontri durarono tutta la notte tra il 28 e il 29. Anche via Salvator Rosa fu sbarrata da imponenti barricate, che impedirono il transito ai carri armati nemici.


La mattina del 29 settembre la rivolta armata scoppiò in tutto il Vomero e nelle zone adiacenti e fu condotta con coraggio e determinazione. C’erano tedeschi asserragliati negli edifici di via Kerbaker, via Solimena, via Cimarosa, piazza Medaglie d’oro e nella palazzina del campo sportivo e si difendevano come potevano dagli assalti dei partigiani, mentre in piazza Vanvitelli, via Alvino, la Pigna, piazza Leonardo, Cappella dei Cangiani gli scontri avvennero in campo aperto.
Era l’alba e in via Kerbaker c’era un gruppo di nazifascisti che sparava da una finestra del quarto piano. I partigiani risposero al fuoco, erano allo scoperto, due furono gravemente feriti, se ne salvò solo uno. Quando fecero irruzione nell’appartamento, i nemici erano fuggiti per i tetti, lasciandosi dietro macchie di sangue e una vecchia in preda al terrore.
In via Solimena furono messi in fuga alcuni tedeschi che, con una mitragliatrice messa su un davanzale di un abbaino, sparavano all’impazzata. L’operazione costò la vita a un partigiano.
Due giovani militi fascisti che montavano la guardia alla sede del fascio, in via Cimarosa, furono disarmati e massacrati di botte.
Una postazione, annidata nel palazzo detto il Transatlantico, in piazza Medaglie d’oro, fu messa a tacere con un’abile azione.
Un intenso combattimento si svolse intorno al campo sportivo durante tutto il 29. Circa sessanta tedeschi, comandati dal maggiore Sakau, erano rinchiusi nelle due palazzine all’ingresso del campo; avevano 47 ostaggi e sparavano senza sosta contro i partigiani, che avevano preso posizione nei fabbricati di fronte. In rinforzo ai partigiani arrivò una camionetta guidata dal vigile del fuoco Mario Canessa, con a bordo una mitragliatrice. Il vicebrigadiere dei carabinieri Vincenzo Pace saltò sulla camionetta, mise in posizione l’arma e concentrò il fuoco verso il nemico. Pace, dopo poco, venne ferito e il suo posto fu subito preso da un altro. I combattimenti continuavano. Erano le 18,00 quando dall’ingresso del campo apparve il maggiore Sakau preceduto da una bandiera bianca e circondato da altri militari. I partigiani s’avvicinarono, uno di loro conosceva il tedesco. Il maggiore chiese di cessare il fuoco e di lasciar passare i suoi uomini, minacciando l’uccisione degli ostaggi. La controproposta dei partigiani fu: “O la resa o continuare a combattere”. Sakau scelse la seconda soluzione. La sparatoria continuò ancora per un’ora ma poi riapparve dal cancello del campo a bordo di una camionetta con bandiera bianca portata da un suo subalterno. Si riaprirono le trattative; il maggiore disse che per arrendersi occorreva l’ordine del comandante Scholl che risiedeva all’albergo Parco in corso Vittorio Emanuele, eletto a quartiere generale. Mentre si stava decidendo il da farsi, l’autista, pare preso dal panico alla vista di alcuni uomini armati fece esplodere una bomba a mano che mise fuori uso l’automezzo. Con un’altra macchina la delegazione tedesca, disarmata, venne portata in corso Vittorio. All’albergo Parco regnava il caos più totale, fervevano i preparativi per la fuga. In breve fu raggiunto l’accordo: i 47 ostaggi sarebbero stati liberati e i tedeschi sarebbero stati lasciati liberi di partire. Intorno alla mezzanotte rientrò al campo sportivo la delegazione, l’accordo fu mantenuto da tutte e due le parti e i tedeschi partirono su tre autocarri. Nella battaglia del campo sportivo persero la vita sette civili.
Piazza Vanvitelli divenne l’epicentro dei combattimenti. Quadrivio strategico per i belligeranti, lì si concentrarono i partigiani provenienti dalle strade circostanti. All’angolo di via Luca Giordano una mitragliatrice tedesca sputava fuoco a ripetizione, fermando l’assalto dei partigiani; uno di essi, uscito allo scoperto, si lanciò contro ma una raffica lo ferì mortalmente. Gli scontri continuavano. Dopo circa due ore di combattimenti, verso le 17,30 un fortissimo temporale sembrò placare gli animi: cessarono gli spari ma, finito il temporale, i tedeschi ripresero a scorrazzare nella zona e due autoblindo sparavano su ogni cosa si muovesse. I due mezzi furono fermati da bombe a mano lanciate dalle finestre.
Durante la notte i tedeschi a piedi o motorizzati gridavano: “Italiani non sparate”. Un grido esplicativo del loro stato d’animo.
Sempre il 29, intorno alle nove del mattino, i partigiani intercettarono una camionetta tedesca che rimorchiava un’automobile. Ordinarono l’alt ma la camionetta proseguì accelerando. Fu inseguita con un’altra vettura e, raggiunta, cominciò la sparatoria; i tedeschi rimasero feriti e furono fatti prigionieri.
In via delle Pigne i partigiani furono alle prese con delle mine, che se scoppiate avrebbero gravemente danneggiato i palazzi del circondario. Riuscirono a toglierle sotto il fuoco nemico e a buttarle in un pozzo adiacente. La sera, poi, vedendo passare un’autocolonna nemica, si predisposero per impedirne il transito. Forti di una mitragliatrice e con l’appoggio di altri gruppi di partigiani armati di mitra e bombe a mano, la partita si chiuse a vantaggio dei napoletani.
Il 29, a mattina inoltrata, gli scontri si fecero aspri in piazza Leonardo. I partigiani per impedire ai tedeschi, provenienti da piazza Medaglie d’oro, di raggiungere via Salvator Rosa, fortificarono la zona e appena videro passare il primo autocarro, armato di mitragliatrice, aprirono il fuoco costringendo gli occupanti a darsi alla fuga. Stessa sorte toccò a un altro automezzo che fu abbandonato, come il primo, nelle mani dei partigiani.
A Cappela dei Cangiani i tedeschi, per garantirsi il transito senza pericolo, dettero luogo a una perquisizione dei fabbricati e presero dodici ostaggi. Li trascinarono per strada e stavano per fucilarli quando un commando di partigiani intervenne a liberarli.
La sera del 29 settembre, mentre i partigiani del Vomero attendevano la delegazione tedesca con l’autorizzazione del colonnello Scholl a trattare la resa, si riunirono nei locali del liceo Sannazzaro per la formale costituzione di un comando dei partigiani. Per acclamazione fu nominato capo del comando Antonino Tarsia in Curia e alla formazione, priva di colore politico e avente solo scopo patriottico, fu dato il nome di Fronte unico rivoluzionario, con sede nel liceo. Si procedette a dare un minimo di organizzazione alla neonata compagine e a risolvere i problemi più urgenti. Tra questi, quello di fornire viveri ai partigiani, digiuni dal mattino. Fu composta una squadra per il reperimento di qualunque cosa fosse commestibile. Con le buone e con la forza si riuscì a racimolare razioni sufficienti per sfamare circa duecento persone.
Un altro reparto di partigiani fu incaricato di dare la caccia alle spie e ai gerarchi fascisti annidati nei vari appartamenti. Compito che fu assolto secondo le precise direttive di Tarsia.
Spuntava l’alba del 30 settembre, l’epopea delle Quattro Giornate stava per concludersi. Nel liceo Sannazzaro si decise di emanare un’ordinanza per dissuadere i male intenzionati ad azioni non in linea con i programmi del Fronte. Il proclama, a firma Tarsia, così recitava:

“Assumo temporaneamente i poteri civili e militari.
Ciascuno faccia scrupolosamente il suo dovere, la disciplina deve essere assoluta. Sono vietate tutte le manifestazioni che turbano l’ordine pubblico. I negozi debbono rimanere aperti: squadre d’azione rivoluzionaria sorveglieranno la disciplina e la vendita nei pubblici esercizi.
Napoli, 30 settembre 1943”.

Lo stesso giorno il tenente colonnello Felicetti si recò al comando del Fronte prospettando lo stato d’inedia della popolazione e la possibilità di rimediare con un carico di circa cento quintali di farina; per trasportarli, però, chiedeva due automezzi. L’ufficiale era conosciuto per la sua serietà ma, date le circostanze, la diffidenza non era troppa. Ebbe i suoi camion con la raccomandazione di portare a termine la missione, pena una severa punizione.
Cominciò il lungo viaggio dei due camion, che si manifestò pieno d’insidie e di pericoli. Giunti a un mulino che sorgeva ai margini del campo d’aviazione di Capodichino, entrarono da un portone laterale in maniera che i tedeschi, ancora sulle piste e negli hangar, non riuscissero a vederli. Mentre stavano ultimando il carico, tuttavia, s’accorsero che i militari stavano per intervenire. Solo la prontezza di spirito di Felicetti salvò il salvabile: lasciò il camion ancora non completo e partì con quello pieno attraverso strade impervie che solo lui conosceva. Fu un viaggio pericoloso perché dovette evitare tutte le zone dov’era prevedibile fare brutti incontri. Il viaggio durò dieci ore ma l’ufficiale italiano riuscì a portare a destinazione un camion di farina, che fu provvidenziale. I panettieri furono mobilitati e riuscirono a produrre pane per gli abitanti del Vomero in ragione di cento grammi a testa.
Nel pomeriggio del 30 settembre ci fu un tentativo da parte di un console fascista e dei suoi uomini di assaltare la sede del Fronte unico rivoluzionario. I partigiani, preventivamente avvisati del blitz, predisposero le forze in modo tale che quando arrivarono i fascisti ebbero un’accoglienza talmente rumorosa che se la dettero a gambe disperdendosi senza lasciare traccia.
Il tramonto aveva concluso il suo breve ciclo e la sera declinava verso il desiderio della notte. La città, stanca, sembrava sonnolenta. I partigiani avevano disposto le ronde in luoghi strategici. Le sparatorie dei giorni e delle ore precedenti erano cessate; solo qua e là qualche colpo isolato, ultimo rantolo d’una battaglia morente.
In lontananza si sentiva il tuono dei cannoni. Lo scontro era adesso tra l’armata tedesca in ritirata e quella anglo-americana che avanzava. Anche le navi da guerra americane e inglesi contribuivano a quel fragore rassicurante. In cielo i proiettili traccianti, i razzi illuminanti, lo scoppio di granate offrivano uno spettacolo che si sarebbe potuto definire piacevole se non avesse nascosto distruzione e morte. Con questa scena calava il sipario sulle Quattro Giornate di Napoli, 76 ore di combattimenti, dal mattino del 28 settembre all’alba del primo ottobre, che costarono la vita a 178 partigiani e il ferimento di 162».