venerdì 22 luglio 2016

Ci vediamo all'Elba Book Festival!

Apre martedì 26 luglio, alle 18,30, a Rio nell'Elba la seconda edizione di Elba Book Festival, splendida manifestazione letteraria che si tiene all'Elba, l'isola maggiore del gruppo dell'Arcipelago Toscano. Quattro giorni, fino al 29 luglio, di incontri, tavole rotonde e presentazioni in piazza Matteotti, per unire il mare alla cultura. Elba Book Festival apre alle 18,30 e chiude alle 24,00 e l'ingresso è gratuito. Non perdete l'incontro con Luca Leone, autore con Riccardo Noury del libro SREBRENICA. LA GIUSTIZIA NEGATA, prevista per mercoledì 27 luglio alle 10,40 al bar Il Rifugio. Vi aspettiamo, non mancate!

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martedì 12 luglio 2016

Srebrenica, il ricordo di Pierfrancesco Curzi

Nell'abitato di Potočari, a due passi dalla fabbrica della morte e dalla spianata del pianto, in mezzo ad alcune case ridotte a ruderi, c'è un campo di calcetto. Spesso è occupato da bambini e ragazzini di varie età, impegnati a superarsi col pallone. Indossano maglie di squadre di calcio importanti, anche di italica origine. Di fronte, un piccolo negozio di alimentari e la fermata dell'autobus della linea che collega Srebrenica a Bratunac. La strada sale dolce verso la città termale, lascio l'auto a Potočari e, a piedi, raggiungo Srebrenica. Con calma, il tempo dalla mia parte. La pianura si fa campagna e di nuovo città, attraverso uno scenario noto. Reciproci saluti, l'offerta di un čaj o di un bicchiere d'acqua, l’ostacolo della lingua è solo parziale. L'ingresso a Srebrenica, il distributore sulla destra, quindi i primi palazzi, la stazione degli autobus, le baracche dei profughi ed ecco gli edifici restaurati di recente. Uno, di fianco alla sede del Comune, è diventato un hotel; quello di fronte fungeva da linea di mezzeria della strada, oggi ospita negozi, caffè e ristoranti. Salgo fino alla piazza principale, eccolo il caffè all'aperto, ricavato dentro un container, ricordo dei giorni dell'inferno. Sempre a piedi imbocco la stradina al suo fianco salendo ancora verso l'hotel Domavia, quanto meno i resti abbandonati dove vivono ancora dei poveri cristi. A monte, infine, dove la strada va a morire, la sede delle mitiche terme Guber. Nelle giornate di sole, è curioso farsi ombra grazie alla torre del minareto o al campanile della chiesa, un centinaio di metri l’una dall’altro. Simbologia stravolta di una convivenza perduta. Sta imbrunendo, decido di rientrare a Potočari. Appena fuori dal centro ecco la scuola con i campetti da basket, gli stessi dove, durante la guerra d’aggressione alla Bosnia e ai bosniaci, sono cadute le granate serbe, facendo strage di innocenti. Le nuove generazioni si divertono senza avere idea di cosa è accaduto lì vent'anni prima. È un piacere ascoltare le voci dei bambini al gioco, chiudere gli occhi e immaginarsi l’inferno di allora. Posso solo immaginare. E mentre, all'imbrunire, riprendo il cammino verso Potočari, stavolta in favorevole discesa, con fatica cerco di bloccare l'incedere di una lacrima. Sconfitta annunciata.

Srebrenica, sconfitta annunciata

Concludiamo i nostri ricordi e pensieri su Srebrenica con Pierfrancesco Curzi, autore di In Bosnia. Viaggio sui resti della guerra, della pace e della vergogna


Nell'abitato di Potočari, a due passi dalla fabbrica della morte e dalla spianata del pianto, in mezzo ad alcune case ridotte a ruderi, c'è un campo di calcetto. Spesso è occupato da bambini e ragazzini di varie età, impegnati a superarsi col pallone. Indossano maglie di squadre di calcio importanti, anche di italica origine. Di fronte, un piccolo negozio di alimentari e la fermata dell'autobus della linea che collega Srebrenica a Bratunac. La strada sale dolce verso la città termale, lascio l'auto a Potočari e, a piedi, raggiungo Srebrenica. Con calma, il tempo dalla mia parte. La pianura si fa campagna e di nuovo città, attraverso uno scenario noto. Reciproci saluti, l'offerta di un čaj o di un bicchiere d'acqua, l’ostacolo della lingua è solo parziale. L'ingresso a Srebrenica, il distributore sulla destra, quindi i primi palazzi, la stazione degli autobus, le baracche dei profughi ed ecco gli edifici restaurati di recente. Uno, di fianco alla sede del Comune, è diventato un hotel; quello di fronte fungeva da linea di mezzeria della strada, oggi ospita negozi, caffè e ristoranti. Salgo fino alla piazza principale, eccolo il caffè all'aperto, ricavato dentro un container, ricordo dei giorni dell'inferno. Sempre a piedi imbocco la stradina al suo fianco salendo ancora verso l'hotel Domavia, quanto meno i resti abbandonati dove vivono ancora dei poveri cristi. A monte, infine, dove la strada va a morire, la sede delle mitiche terme Guber. Nelle giornate di sole, è curioso farsi ombra grazie alla torre del minareto o al campanile della chiesa, un centinaio di metri l’una dall’altro. Simbologia stravolta di una convivenza perduta. Sta imbrunendo, decido di rientrare a Potočari. Appena fuori dal centro ecco la scuola con i campetti da basket, gli stessi dove, durante la guerra d’aggressione alla Bosnia e ai bosniaci, sono cadute le granate serbe, facendo strage di innocenti. Le nuove generazioni si divertono senza avere idea di cosa è accaduto lì vent'anni prima. È un piacere ascoltare le voci dei bambini al gioco, chiudere gli occhi e immaginarsi l’inferno di allora. Posso solo immaginare. E mentre, all'imbrunire, riprendo il cammino verso Potočari, stavolta in favorevole discesa, con fatica cerco di bloccare l'incedere di una lacrima. Sconfitta annunciata.

lunedì 11 luglio 2016

Srebrenica, i tre ricordi di Hatiđa

Nel giorno dell’anniversario della caduta di Srebrenica, da Srebrenica. La giustizia negata, i tre ricordi di Hatiđa Mehmedović.

Hatiđa Mehmedović, una donna di cui ho raccontato in un intero capitolo del mio Srebrenica. I giorni della vergogna, uscito per il decennale del genocidio, e a cui hanno porta­to via tutto. Le sono rimaste tre cose che le ricordano d’essere stata sposata, d’aver avuto una famiglia, una vita normale. Un tempo.
La prima cosa: una vecchissima foto sgranata che ha ritrovato per caso da lontani parenti e di cui ha fatto rifare il negativo per poterla stampare in formato gigante. Perché gli sterminatori ultra­nazionalisti serbo-bosniaci e serbi di Srebrenica e i delatori che li hanno fiancheggiati sul posto hanno prestato molta attenzione a cancellare tutto ciò che potesse raccontare della secolare presenza musulmana bosniaca in città.
La seconda: l’abete piantato di fianco alla casa dal figlio maggiore, ammazzato dai criminali alle dipendenze di Mladić.
Infine, il nome tracciato con un legnetto dal figlio minore quand’e­ra bambino sul cemento del marciapiede intorno a casa, steso dal marito prima che la guerra scoppiasse. Ammazzati anche loro due, padre e figlio più piccolo. Di uno di loro tre sono stati ritrovati i resti. Degli altri ogni tanto esce fuori qualcosa dal terreno della Republika Srpska, trasformato in quella zona in un’immensa fossa comune, op­pure dai sacchi bianchi del centro commemorativo di Tuzla, il luogo in cui porterei in visita d’istruzione tutti i potenti della Terra e i loro leccapiedi di certa stampa e di certa impresa, lasciandoli qualche de­cina di minuti chiusi in un frigorifero di duecentocinquanta metri quadrati pieno di sacchi di esseri umani fatti a pezzi e riesumati da fosse comuni secondarie e terziarie.

domenica 10 luglio 2016

Srebrenica, memorie di una testa tagliata

Il ricordo di Srebrenica oggi è affidato a Marco Travaglini, autore di Bosnia, l’Europa di mezzo. Viaggio tra guerra e pace, tra Oriente e Occidente
Ogni volta che torno da Srebrenica e da Potočari, porto con me le immagini del filmato che documenta lo sporco “lavoro” degli “Scorpioni”, delle truppe paramilitari d’assalto, delle milizie del boia Mladić. Si filmarono da soli, in preda a un delirio di onnipotenza, per testimoniare le loro nefandezze. Si vedono mentre inseguono i fuggiaschi nei boschi, puntando le armi su una fila di bosniaci disperati. Sanno cosa fare: prendono un uomo alla volta, lo portano in mezzo alla boscaglia, gli sparano. S’intuisce la loro richiesta prima di ogni esecuzione: “Guarda per terra”. Poter non guardare in faccia la propria vittima, hanno spiegato gli psicologi, è ciò che serve anche al più duro dei criminali per resistere allo stress di un genocidio. È una richiesta allucinante, come dire “ora ti sparo. Abbassa gli occhi e muori. Muori, ma non guardarmi”.
Le immagini scorrono nella fabbrica di batterie fredda e silenziosa, incollando gli sguardi allo schermo. Un silenzio che si fa ancora più assordante, spezzato di tanto in tanto da qualche rumore metallico (basta appoggiarsi o inciampare in qualche struttura per provocarlo e amplificarlo nel vuoto di questi enormi scatoloni di ferro e cemento). L’atmosfera è sempre pesante e la tensione diventa palpabile, densa. Un grumo di emozioni s’accumula e fatica a sciogliesi in uno stress emotivo. Viene il magone e in fondo è un atto liberatorio, un modo per espellere il veleno inoculato negli animi da queste immagini che non sono tratte da un film ma dalla testimonianza, diretta e cruda, di una realtà violenta e arrogante. Sembra di udire la voce profonda e un po’ rauca di Giovanni Lindo Ferretti. Ne immagino la faccia scavata, senza età mentre canta Memorie di una testa tagliata. Parole che fanno riflettere lì, a Srebrenica.
“Chi è che sa di che siamo capaci tutti, vanificato il limite oramai. Vanificato il limite, sotto occhi lontani, indifferenti e bui…Pomeriggio dolce assolato terso, sotto un cielo slavo del Sud. Slavo cielo del Sud non senza grazia”.
Un limite oltrepassato, calpestato, negato con un cinismo paragonabile solo alla pianificazione nazista dell’Olocausto. E tutto questo cinquant’anni dopo. Segno che la storia, troppe volte, non insegna niente, nonostante offra un infinità di occasioni su cui riflettere, da cui imparare. Quando si esce da quei capannoni è come s’uscisse da una tomba. Qui è il cuore della memoria rimossa dell’Europa, dove esiste un Islam europeo, ma è un’anomalia che disturba, nello schema dello scontro Oriente-Occidente.
Predrag Matvejević, scrittore e grande intellettuale balcanico, nato a Mostar, croato-bosniaco con cittadinanza italiana, un giorno scrisse: “Li hanno fatti fuori per questo. Sono una complessità intollerabile in un mondo fatto di bianco e nero. Oggi esiste solo l’Islam che spaventa. Dell’altro chi se ne frega. I musulmani dal volto umano al massimo si compatiscono, come quelli di Srebrenica. Chi se ne importa di un popolo che si fa massacrare e poi non mette nemmeno una bomba? E invece in Bosnia c’e un Islam europeo, che lascia le donne libere, le gonne corte, che accetta i matrimoni misti e quando c’è del buon vino lo beve, senza problemi. Una risorsa dimenticata, che si sarebbe potuta giocare contro i fondamentalisti”.

Pure e semplici verità che andrebbero considerate come antidoto al delirio del Califfato che preannuncia attacchi nei Balcani per “difendere i musulmani e terrorizzare gli infedeli”, richiamandosi proprio a Srebrenica.

sabato 9 luglio 2016

Srebrenica, tutto era morte, abbandono, lutto

Oggi chi visita Potočari si reca in un luogo quasi perfetto nella sua solennità intrisa di dolore. Un luogo che invoca silenzio, pietà e comprensione. Un cimitero quasi museale, con migliaia di stele per­fettamente ordinate e solenni a disegnare un piccolo bosco di bonsai bianchi immobili anche quando soffia il peggior vento. A quel tem­po non c’erano stele di marmo bianco. C’erano solo tavole di legno verde e fango. L’erba era poca e si camminava su una terra argillosa e appiccicosa che sembrava non volesse lasciarti andare via. Su due o tre tombe qualcuno aveva portato dei fiori di plastica. Su uno spa­ruto numero di altre c’era qualche fiore piantato, piuttosto provato, talvolta una piantina striminzita. I musulmani in circolazione erano pochissimi. Giravano molte persone armate e di notte era raccoman­dabile non farsi vedere. Ancora oggi è meglio cambiare strada, se hai la sfortuna d’incontrare qualcuno di quelli che ha torturato, stuprato e ammazzato, rigorosamente a piede libero. C’era un solo bar aperto e un microscopico negozio di alimentari. Tutto era buchi di mitra­gliatrice e di mortaio. Tutto era morte, abbandono, lutto.

venerdì 8 luglio 2016

Sulla brutta figura di Mujica al cospetto del gatto Dodik e della volpe Kušturica

Per il fine settimana potrebbe essere molto istruttiva la lettura dell’ottimo articolo di Andrea Zambelli, pubblicato su Eastjournal, nel quale si racconta la pessima figura rimediata da José "Pepe" Mujica lo scorso 27 giugno a Višegrad, ospite del presidente della Repubblica serba di Bosnia, “l’orso” Milorad Dodik, e del suo amico preferito Emir Kušturica, un tempo apprezzato (e sopravvalutato) regista, oggi costruttore di città ridicole e sostenitore convinto dell’ultranazionalismo serbo-bosniaco.
La questione non riguarda la presenza di Mujica a Višegrad, quanto le ragioni di questa presenza. Da un uomo come Mujica ci si aspetterebbe una visita rispettosa e commossa alle vittime – almeno 3.000 musulmani bosniaci – della pulizia etnica serbo-bosniaca, ovvero dei predecessori di Dodik, messa in atto tra il 1992 e il 1993. Invece Mujica si è recato nella dolente, muta, avvilita e avvilente Višegrad per stringere la mano al successore dei responsabili di Višegrad, fino ad accettare la consegna ufficiale di un riconoscimento formale quale la medaglia d’argento dell’Ordine della Republika Srpska. Onorificenza, tra l’altro, creata da Radovan Karadžić nel 1993 per premiare coloro che si fossero distinti per meriti speciali a vantaggio dell’entità serbo-bosniaca, costruita sul genocidio e sulla pulizia etnica tra il 1992 e il 1995.
Poiché credo nella buona fede di un grande uomo come Mujica, penso che la colpa indelebile di questa buffonata in chiave serbo-bosniaca sia da imputare ai consiglieri dell’ex presidente uruguayano, il cui percorso politico e di vita è troppo importante per credere che improvvisamente sia diventato un sostenitore dell'ultranazionalismo balcanico. Magari avrà pagato anche per i consigli di qualche amico italiano, chissà… ma senz’altro ha macchiato profondamente la sua immagine.
Mujica non è il primo né purtroppo sarà l’ultimo uomo politico – o annoiato intellettuale radical chic, come ce ne sono molti nei salotti italiani – a confondere l’anti-imperialismo e l’anti-americanismo con il sostegno a personaggi dal cupo passato e dal non meno cupo presente. Si può forse essere anti-americani facendo di tutta l’erba un fascio. Ma non si può arrivare a sostenere chi si ammanta di un anti-imperialismo di maniera solo per raggiungere i suoi più o meno loschi fini, poggiando le radici del proprio potere e della propria ragion d’essere sul genocidio umano e culturale di un intero popolo. Da tempo Dodik lavora instancabilmente per circondarsi di belle figurine per dimostrare che la Repubblica serba secessionista gode di sostegni e immunità a ogni livello. Lo ha fatto, grazie al genio ribelle dell’ex regista Kušturica, con Monica Bellucci. Lo ha fatto ancora con Mujica. Lo ha fatto in passato e lo farà ancora.
Approfittare della buona fede e della storia di un uomo anziano come Mujica è solo l’ennesimo gesto sgarbato e privo di classe del duo Dodik-Kušturica, capaci di calpestare tutto e tutti pur di arrivare a meta. Saperlo può salvare da brutte figure e da molti imbarazzi. Ma resta il fatto che un uomo come Mujica, per non parlare dei suoi consiglieri, non poteva non sapere di quale ginepraio vi sia in Repubblica serba e ancor di più in un luogo dell’infamia e del dolore come Višegrad. A certi livelli, l’ignoranza è un peccato mortale.
Mujica si scusi con i parenti delle tremila vittime di Višegrad e restituisca la medaglia a chi gliela ha data. Sarebbero due gesti elementari che potrebbero almeno in parte salvare la faccia di quello che continuo, nonostante tutto, a considerare un galantuomo.

20 settembre 2003, Bill Clinton a Srebrenica

L’11 luglio 1995, Srebrenica: oltre diecimila maschi tra i 12 e i 76 anni vengono catturati, torturati, uccisi e inumati in fosse di massa. Stesso destino hanno alcune giovani donne abusate dalla soldataglia. Le vittime sono bosniaci musulmani, da oltre tre anni assediati dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache agli ordini di Ratko Mladić e dai paramilitari serbi. Ripercorriamo quei giorni con le parole di alcuni nostri autori che hanno affrontato questo argomento.
Ho scelto, a partire da oggi e fino al 12 luglio, dei passi tratti dal libro che ho scritto con Riccardo Noury, dal titolo Srebrenica. La giustizia negata. Cominciamo dalla visita di Bill Clinton a Potočari

Bill Clinton giunse a Srebrenica il 20 settembre 2003. Prima non c’era mai stato. Eppure era lui il presidente degli Stati Uniti d’Ame­rica ai tempi del genocidio. Clinton entrò in carica per il suo primo mandato nel 1993 e chiuse il suo secondo termine nel 2001. È a lui che si deve la fine – seppur tardiva e sbagliata, nei termini e ne­gli accordi – del conflitto bosniaco del 1992-1995. L’ex presidente della superpotenza mondiale per antonomasia giunse nel luogo del martirio di oltre diecimila civili inermi quasi sospeso in una nu­vola di telecamere, flash, taccuini, domande a cui in buona parte non fu data risposta, aspettative. Impeccabile in giacca e cravatta. Clinton tenne il discorso d’inaugurazione del cimitero memoriale di Potočari. Davanti a migliaia di vedove, di figlie, di sopravvissute al genocidio di Srebrenica, perpetrato appena otto anni prima, si commosse pronunciando frasi pesanti come macigni proprio per­ché cariche di promesse e di princìpi mai e poi mai attuati. Prima di leggere il suo discorso aveva incontrato in privato una delegazione di donne di Srebrenica. Aveva fatto promesse. Aveva chiesto scusa. S’era commosso. Era stato attaccato. Era stato persino consolato. Lui. Davanti alle telecamere di tutto il globo, in un memoriale in cui erano state sepolte in luglio le prime centinaia di piccole bare verdi piene di ossa, solo d’ossa, Clinton disse cose di questo tenore:
“We remember this terrible crime because we dare not forget, be­cause we must pay tribute to the innocent lives, many of them children, snuffed out in what must be called genocidal madness…”.
“I hope the very mention of the name Srebrenica will remind every child in the world that pride in our own religious and ethnic heritage does not require or permit us to dehumanize or kill those who are dif­ferent. I hope and pray that Srebrenica will be for all the world a sober reminder of our common humanity”.
“May God bless the men and boys of Srebrenica and this sacred land their remains grace”.
Lacrime. Promesse. Lui che si allontana con un’immensa scorta.

Bugie. L’ennesimo “che non accada mai più” pronunciato a vanvera da un potente. Come quelli detti dopo la Shoah, dopo Hiroshima e Nagasaki, dopo la guerra di Corea, dopo il Vietnam… e così via, fino al Rwanda, 1994, e Srebrenica, 1995, e poi fino ai nostri giorni. “Mai più” falsi e bugiardi.

mercoledì 6 luglio 2016

Bullismo e cyberbullismo, i dati

“Il bullismo rappresenta un insieme di comportamenti molestatori che vengono posti in essere al fine di compiere una prevaricazione nei confronti di un soggetto più debole o che risulta psicologicamente più fragile”, esordiscono Luciano Garofano e Lorenzo Puglisi nel volume, da poco in libreria, dal titolo La prepotenza invisibile. Gli autori si chiedono se il fenomeno sia in crescita, come sembra dalle rilevazioni dei mass media o meno; a questa domanda rispondono con una serie di dati molto interessanti che vi riportiamo.
“A tal riguardo, è illuminante l’esito di una ricerca condotta dalla professoressa Ada Fonzi, ordinario di Psico­logia dell’età evolutiva presso l’Università di Firenze, che ha eviden­ziato come non si possano rilevare oscillazioni del fenomeno in termini statistici perché non esistono parametri di riferimento per poter compiere un parallelismo con il passato: il bullismo, con tutta pro­babilità, è sempre esistito senza soluzione di continuità e, stando a quan­to insegnano i sociologi, sempre esisterà.
Un riferimento molto qualificato ci arriva da Telefono Azzurro, secon­do cui il fenomeno del bullismo, senza mezzi termini, è in crescita: su un totale di 3.333 consulenze eseguite in relazione a problematiche con­cernenti la tutela e la salute di bambini e adolescenti, è stato possibile rilevare che ben 485 – pari al 14,6% del totale dei casi affrontati – si ri­feriscono a questioni attinenti al bullismo e al cyberbullismo e interessano principalmente vittime di sesso femminile di età compresa tra 11 e 14 anni, sebbene anche la componente adolescenziale sia piuttosto elevata. Nel 2012 erano l’8,4% del totale, nel 2013 il 13,1%”.
“Nello studio di Telefono Azzurro, eseguito nel 2014 in collabora­zione con DoxaKids, denominato Osservatorio Adolescenti – continuano Garofano e Puglisi - è emerso che il 34,3% dei giovani intervistati desidererebbe che la scuola li proteggesse maggiormente da violenza o bullismo. Nel 19% dei casi gli intervistati sono stati testimoni di furti all’interno della scuola e nel 17,5% si sono trovati ad assistere a fatti di violenza verso un docente. Allarmante il dato che vede il 34,7% dei ragazzi vittime di episodi di bullismo che, nel 67,9% dei casi, si è verificato a scuola, soprattutto in considerazione del fatto che il 31,3% di essi ha lasciato correre e il 22,7% non lo ha comunicato a nessuno, dimostrando una preoccupante forma di impotenza verso il fenomeno. Solo il 29,9% ha invece cercato di opporre una forma di difesa anche attraverso l’aiuto dei genitori (1 su 5), atteggiamento che interessa soprattutto le ragazze.
Estremamente interessante è anche l’ultimo Rapporto dell’Istat, Il bul­lismo in Italia: comportamenti offensivi e violenti tra i giovanissimi. Dalla ricerca emerge che nel 2014, anno di riferimento dello studio, una percentuale superiore al 50% degli intervistati è stata vittima di qualche episodio offensivo, irrispettoso o violento, posto in essere da altri ragazzi nel corso del 2013. Tra questi, quasi il 20% ha subìto azioni tipiche del bullismo anche più volte al mese e per il 9,1% di essi tali episodi hanno avuto una cadenza settimanale. Sono i ragazzi in età compresa tra gli 11 e i 13 anni quelli che ne risultano più colpiti e, tra questi, più le femmine dei maschi. Considerando poi le prepotenze che avvengono con minore frequenza, è il nord del Paese il territorio più colpito da tali atti di preva­ricazione. Relativamente al tipo di sopruso, il 12,1% delle vittime rife­risce d’essere stato oggetto di soprannomi ingiuriosi, insulti o parolacce; seguono le offese che riguardano il modo di esprimersi o l’aspetto fisico, con una percentuale del 6,3%. Meno frequente appare invece il numero di coloro che sono stati esclusi a seguito delle proprie opinioni o per vere e proprie azioni diffamatorie. La violenza fisica, infine, colpisce circa il 4% dei giovani mediante percosse, spintoni, pugni di cui risultano re­sponsabili gli stessi ragazzi/adolescenti”.
Il testo sopra riportato è disponibile per la stampa citando la fonte © Infinito edizioni 2016 (www.infinitoedizioni.it).

martedì 5 luglio 2016

Genocidio di Srebrenica, i numeri del 2016

L’11 luglio, come ormai triste consuetudine, saranno tumulati i resti delle vittime del genocidio di Srebrenica riconosciute grazie al lavoro degli antropologi forensi e all’esame del Dna.
Quest’anno saranno 127 i mucchietti d’ossa contenuti dentro piccole casse verdi che raggiungeranno gli altri loro 6.377 compagni di sventura sotto la dura crosta della terra del cimitero memoriale di Potočari, distante circa cinque chilometri da Srebrenica.
A quota diecimila – il numero stabilito dall’ente internazionale che si occupa del riconoscimento e dell’inumazione delle vittime, sebbene i famigliari delle vittime da anni facciano il numero di 10.701 morti – manca ancora molto.
Stucchevoli polemiche hanno preceduto (e stanno precedendo) la commemorazione. A queste stucchevoli polemiche, come ogni anno accade, seguirà il silenzio dei politici-sciacalli e dei media, talvolta non meno sciacalli.
Ai parenti delle vittime che quest’anno troveranno sepoltura vanno le più sincere condoglianze. A chi ancora sta aspettando che i loro cari vengano esumati da nuove fosse comuni secondarie o terziarie o vengano riconosciuti dagli esperti nel centro commemorativo di Tuzla, tutta la più umana comprensione e il più forte sostegno affinché questo dolore ultraventennale possa finalmente trovare conclusione.

Tutte le vittime – sia quelle già inumate sia quelle che forse un giorno lo saranno – e i loro famigliari stanno ancora aspettando quella chimera chiamata giustizia, che al momento è solo e semplicemente giustizia negata.

La sonda Juno ha raggiunto Giove: dal mito greco al successo scientifico

"Welcome to Jupiter!" è il grido che si è levato assieme all'applauso nel quartier generale del Jet propulsion laboratory della Nasa, in California alle 5:53 italiane. Sono scattati tutti quanti in piedi nel momento in cui è arrivata la conferma da oltre 500 milioni di chilometri: la sonda Juno si è inserita nell'orbita di Giove, il suo motore principale ha eseguito una manovra perfetta. L’importantissimo risultato scientifico, frutto di 11 anni di lavoro di cui cinque di viaggio, compiuto esclusivamente a energia solare, fa esultare la comunità scientifica internazionale che attende con trepidazione le prime immagini inviate che saranno inviate da Juno nelle prossime ore.
Stasera, alzando gli occhi al cielo non potremo fare a meno di ripensare alle origini del mito di Giove nella tradizione degli antichi greci, raccontata da Daniele Scaglione in “Le storie che costellano il cielo”. Vi regaliamo la parte dedicata al re dell’Olimpo, insieme a preziosi consigli su come trovarlo nel cielo stellato.
“Giove ci va a spasso nel cielo, e lo fa con sfoggio di potenza. D’altra parte è il re. Prima comandava Saturno, suo padre. Un giorno questi parla con un veggente. «Sovrano dei cieli e della terra, sta per nascere chi ti toglierà il potere», gli dice l’indovino. «Ohibò, questa storia non mi piace per niente. – replica Saturno – E chi sarà a farlo?». «Uno dei tuoi figli», è la risposta. “Quand’è così – pensa il dio – so cosa devo fare”. Ogni volta che a sua moglie Opi iniziano le doglie, il dio sta pronto a intervenire. Come il piccolo sbuca, oplà, se lo ingoia. Dopo quattro figli ingurgitati, Opi perde la pazienza. Tutte quelle gravidanze per niente. Così, appena nato il quinto bebè, la donna ha la prontezza di sostituirlo con un pietrone. Saturno, abituato a mandare giù figli sen­za neppure assaggiarli, ingoia il sasso e non s’accorge di niente. Il bimbo viene chiamato Giove e fatto crescere di nascosto dal padre. Quando è sufficientemente forte e robusto, lo va a incontrare. «Scusa papà, ti sembra una bella cosa aver messo in pancia i miei quattro fratelli? Fac­ciamo un accordo: se li cacci fuori e poi ti ritiri a vita privata senza fare storie, dimentichiamo tutto». Saturno, impressionato dalla possanza del suo figliolo, obbedisce docilmente. Tira fuori la pietra che credeva fosse Giove e i suoi quattro fratelli: Cerere, Nettuno, Plutone e Giunone.
Benché il momento non sia propriamente romantico, Giove s’innamo­ra di una delle due sorelle. Giunone, vuoi perché quel giovane è proprio bello, vuoi per riconoscenza, ricambia. Così si fidanzano e quello è forse il loro unico momento sereno insieme. Definire tormentata la loro rela­zione è poco e i loro litigi hanno parecchie conseguenze su noi dèi, sugli esseri umani, sugli animali…”

lunedì 4 luglio 2016

Alberto Venturelli, correre all’indietro alla conquista del mondo


C’è un primatista italiano di Vignola, nel modenese, che ha già conosciuto almeno due vite sportive e che a luglio combatterà tirando fuori unghie e denti per portare a casa il titolo mondiale di una disciplina da alcuni vezzeggiata, ma che in realtà si sta affermando con sempre maggiore forza. La disciplina si chiama retrorunning, ovvero corsa all’indietro. L’atleta è Alberto Venturelli. Che con oltre 500 podi all’attivo nel tiro con l’arco, specialità compound, e la Nazionale più volte nel mirino, nel 2014 ha deciso di mollare tutto, fulminato da questo sport nato negli Anni ’80 negli Stati Uniti e che vede Italia e Germania primeggiare a livello mondiale.
Quella di Alberto – super fan di Luca Carboni, che gli ha anche dedicato un post su Facebook e Twitter, e ospite fisso della pagina sportiva di Radio Nettuno Bologna – è un’avventura nata piuttosto recentemente, ma che lo ha visto affermarsi nel retrorunning nazionale davvero a passo di carica. Il “vignolese da tutta la vita”, come ama definirsi lui, sponsorizzato dal Gruppo Cremonini, ha “conosciuto il retrorunning nel 2012, quando un mio caro amico e successivamente coach, Francesco Del Carlo, ne parlò durante una puntata de l'Eredità, alla quale partecipò come concorrente”. Subito dopo Francesco vinse l’oro nella staffetta ai Mondiali. “Un paio d’anni più tardi, nel 2014 – continua Alberto – ho deciso di provare anch’io, poco dopo che Francesco aveva guadagnato il suo secondo oro mondiale. Scesi in pista così, per gioco, in una gara a Casalecchio di Reno, nel bolognese. E sono rimasto letteralmente folgorato. Amore a prima vista! Sebbene ammetto di aver faticato parecchio. Allora, infatti, pesavo 90 chili, ma in meno di un anno, senza fatica e senza forzature, sono sceso a 73 chili, il mio peso forma. E nel 2015 ho fatto le prime gare vere portando a casa, in otto mesi, un titolo italiano della classifica generale di Retro Challenge, un argento italiano sui 100 metri, un record italiano sugli 80 metri e un bronzo italiano in retrocampestre sui 2.000 metri…”. E, forse quel che più conta, i punti necessari per ottenere il pass per il Mondiale di Essen, in Germania, che si svolgerà dal 14 al 17 luglio su varie distanze. Quelle fino ai 10.000 metri saranno corse su pista in tartan. La mezza maratona di 21 chilometri si correrà invece su strada. E sarà un testa a testa tra Italia e Germania, come al solito, con Alberto di sicuro a fare la parte del protagonista.

venerdì 1 luglio 2016

Burkina Faso. Lotte, rivolte e resistenza del popolo degli uomini integri

Nessun Paese africano può raccontare l’insurrezione e l’orgoglio meglio del Burkina Faso. In un continente in cui molti presidenti vogliono imporsi come leader “a vita”, i burkinabè hanno insegnato che è possibile prendere in mano il proprio futuro. Un popolo di giovani ha avuto la meglio sul regime quasi trentennale di Blaise Compaoré, cacciato nell’ottobre del 2014, il giorno in cui i parlamentari avrebbero votato la modifica costituzionale per permettergli di ricandidarsi come presidente. I burkinabè hanno detto no all’ennesimo sopruso. E poi hanno resistito al tentativo di colpo di Stato del settembre del 2015. Ma la rivolta è diventata rivoluzione? Possiamo parlare di un’altra “rivoluzione africana”? Marco Bello ed Enrico Casale ce lo spiegano in Burkina Faso. Lotte, rivolte e resistenza del popolo degli uomini integri.
“È un popolo, quello del Paese degli uomini integri, con cui scambiare e imparare: a resistere, a gestire con creatività e innovazione il mondo reale, a trovare soluzioni adeguate pur dovendo fare i conti con risorse economiche spesso scarse, a contare sulla forza delle proprie braccia e delle idee e sulla fiducia delle persone”. (Gianfranco Cattai)
Il Burkina Faso post-insurrezionale resta vigile. C’è un popolo in piedi che non si lascerà raccontare storie dai nuovi governanti”. (Angèle Bassolé)