martedì 28 giugno 2016

28 giugno, una data simbolo nella storia jugoslava

Il 28 giugno, giorno in cui si festeggia San Vito o Vivovdan, è una data simbolica nella storia della Jugoslavia e dei Balcani. Ripercorriamo questa giornata negli ultimi settant’anni di storia insieme a Bruno Maran e al suo preziosissimo libro dal titolo Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti che ripercorre gli ultimi decenni della storia jugoslava, anno per anno, giorno per giorno.
Il 28 giugno del 1948 si segnala per la rottura tra Jugoslavia e Urss, decisa e voluta da Stalin. Il Cominform o Bureau d’Information dichiara che il Partito jugoslavo sta perseguendo una politica ostile verso l’Unione Sovietica. Il Cominform denuncia l’atteggiamento anti-sovietico dei capi del Partito comunista jugoslavo come incompatibile col marxismo-leninismo. Il Bureau pensa che nel Partito non esiste democrazia interna né eleggibilità degli organi interni, né autocritica. Il Partito jugoslavo ha preso la strada di scindersi dal Fronte unito socialista contro l’imperialismo, assumendo una posizione nazionalista. I capi jugoslavi respingono i consigli dei partiti comunisti fratelli di discutere la situazione all’interno del Cominform.
Arriviamo agli anni ’80, più precisamente tra il 26 e il 29 giugno del 1982. A Belgrado si tiene il XII Congresso della Lega dei comunisti, detto “dell’unità e della continuità”. Oltre alle retoriche lodi a Tito e a Kardelj, si odono parole dure e conflittuali tra le correnti. A quella centralista, rappresentata da Serbia e Montenegro; a quella autonomista dei difensori della Costituzione si aggiungono quella dei conservatori e dei liberali. Il rapporto di forze quasi bilanciato permette un compromesso in direzione del “centralismo democratico”.
Le divergenze rimangono aperte. Il Congresso riporta il dato degli iscritti che, sull’onda emotiva della morte di Tito, ora sono 2.111.731, il 9% della popolazione e il 25% dei lavoratori. Segue un Comitato centrale in cui Ante Marković, il politico serbo più rappresentativo – che, secondo le regole della rotazione, avrebbe dovuto essere eletto membro della presidenza del partito – non ottiene i due terzi dei voti come previsto. È uno smacco senza precedenti che, oltre a provocare violente reazioni da parte ser­ba, segna un altro passo verso il definitivo tramonto dell’era Tito. Interviene Petar Stambolić, uomo di punta della Serbia, in qualità di presidente federale, definendo la sconfitta di Marković “un gioco sporco”. Invece si tratta di un voto ad personam contro Marković per le sue concezioni politiche. Il Comitato centrale, eleggendo Marković in una seconda riparatoria votazione, infligge un colpo morale al proprio prestigio.
Il 28 giugno del 1989 rappresenta un punto di non ritorno nella storia contemporanea. Ripercorriamo quel giorno con le parole di Bruno Maran.
Sulla piccola collina di Gazimestan, in Kosovo, dove è eretto un monumento a ricordo della battaglia del 1389, la disfatta serba del Campo dei Merli, Kosovo Polje, davanti a un milione di serbi Milošević esalta i temi del nazionalismo serbo nel 600° anniversario della battaglia, divenuta il mito fondante del nuovo Stato serbo. Sei secoli dopo il popolo serbo continua a celebrare questo anniversario, commemorando l’antica sconfitta, che segnò la fine di un’epoca d’indipen­denza e l’inizio di un lungo e sofferto asservimento al nemico musulmano.
Milošević parla di “Velika Srbija” (Grande Serbia), di unità di tutti i serbi e di confini: “Dove vive un serbo, ivi è Serbia. In Serbia non hanno mai vissuto solamente i serbi. Oggi, più che nel passato, pure componenti di altri popoli e nazionalità ci vivono. Questo non è uno svantaggio per la Serbia. Io sono assolu­tamente convinto che questo è un vantaggio. La Jugoslavia è una comunità multinazionale e può sopravvivere solo alle condizioni dell’eguaglianza piena per tutte le nazioni che ci vivono. La crisi che ha colpito la Jugoslavia ha portato con sé divisioni.
Tra queste divisioni, quelle nazionalistiche hanno dimostrato d’essere le più drammatiche. Risolverle renderà più semplice rimuovere altre divisioni e mitigare le conseguenze che esse hanno creato.
Sei secoli dopo, noi veniamo nuovamente impegnati in battaglie e dobbiamo affrontare battaglie. Non sono battaglie armate, benché queste non si possano mai escludere. Oggi come oggi è difficile dire quale sia la verità storica sulla battaglia del Kosovo e cosa sia solo leggenda. Oggi come oggi questo non ha più importanza.
Perciò è difficile dire oggi se la battaglia del Kosovo fu una sconfitta o una vittoria per la gente serba, se grazie a essa piombò nella schiavitù o se ne sottrasse. Sei secoli fa, la Serbia si è eroicamente difesa sul campo del Kosovo, ma ha anche difeso l’Europa. A quel tempo la Serbia era il bastione a difesa della cultura, della religione e della società europea in generale. Perciò oggi ci sembra non solo ingiusto, ma persino antistorico e del tutto assurdo parlare dell’appartenenza della Serbia all’Europa. Che la memoria dell’eroismo del Kosovo viva in eterno! Viva la Serbia! Viva la Jugoslavia! Viva la pace e la fratellanza tra i popoli!”.
I serbi rispondono, cantando: “Slobo ti amiamo come la terra arida invoca la pioggia”.
Non è solo il 600° anno di Kosovo Polje, è anche il 75° anniversario dell’omicidio di Francesco Ferdinando a Sarajevo, quando un altro serbo dette il via a una guerra... Gli albanesi vivono la celebrazione come un’invasione. In quell’estate sono riesumate le spoglie di re Lažar, eroico capo delle milizie serbe nel 1389 e il giro del sarcofago aperto è il grande spettacolo con cui Milošević annuncia la rinascita della “Grande Serbia”, stregando i serbi in una sorta di allucinante delirio di massa, una forma di paranoia accompagnata dalla continua ricerca di un capro espiatorio. Le Milizie territoriali delle varie repubbliche devono rinunciare alle armi su ordine dell’Armata federale; solo la Slovenia riesce a mantenere una parte degli armamenti, nascondendoli. 
Quattro anni dopo, siamo nel 1992, il presidente francese Mitterrand si reca – a sorpresa – in visita a Sarajevo per avvalorare la gestione franco-inglese del conflitto.
I caschi blu francesi organizzano l’atterraggio del loro presidente. Le truppe serbo-bosniache si sono ritirate, consegnando l’aeroporto all’Unprofor.
Mitterand, timoroso del pericolo del fondamentalismo islamico, sostiene che la faccenda è interna alla Bosnia e che la comunità internazionale non può andare oltre l’intervento umanitario, sottintendendo la tradizionale amicizia franco-serba, che data alla prima guerra mondiale. Dimostrando che l’aeroporto è praticabile, Mitterand impedisce che i serbo-bosniaci siano definiti come gli unici responsabili delle sofferenze della città. La sua visita a Sarajevo, per di più nel giorno di San Vito, altamente simbolico per i serbi, può essere letta anche come un regalo, poiché può aver impedito un intervento militare, che da più parti si stava progettando. Zlatko Dizdarević, giornalista di Oslobodjenje, a proposito scrive: “Da quel momento pochi nel mondo si chiederanno perché mai a Sarajevo, una città che ha sempre avuto una sua economia, generi alimentari, medicinali e tutto quanto le serviva, sia necessario portare rifornimenti con aerei e convogli, invece di fare quello che serve per sbloccare la città e permetterle di funzionare normalmente”.
A Pale, le autorità politiche serbo-bosniache esultano. Sul terreno, le operazioni militari serbo-bosniache continuano con l’annessione di nuovi territori, cui seguono massicce ondate di profughi. Nel giorno di Vivovdan, a Belgrado, 200.000 persone manifestano per chiedere le dimissioni di Milošević e dei suoi portavoce televisivi: ottengono solo una tavola rotonda tra Milošević e il cartello delle opposizioni Depos.
Nel 1999 si ricorda Vivovdan, per la richiesta di dimissioni di Milošević da parte del del patriarca Pavle.
L’ex segretario di Stato Usa Kissinger dichiara al Daily Telegraph: “Il testo di Rambouillet, che chiedeva alla Serbia di ammettere truppe Nato in tutta la Jugoslavia, era una provocazione, una scusa per iniziare il bombardamento. Rambouillet non è un documento che un serbo angelico avrebbe potuto accetta­re. Era un pessimo documento diplomatico che non avrebbe dovuto essere presentato in quella forma”.
Infine il 28 giugno del 2000 è la data in cui Milošević è consegnato al Tpiy dell’Aja con accuse di crimini contro l’umanità per le operazioni in Croazia, Bosnia Erzegovina e Kosovo nonostante la contrarietà di Koštunica e di parte dell’opinione pubblica serba.