sabato 14 novembre 2015

Parigi, 13 novembre 2015…

Non mi capitava da anni di trascorrere l’intera notte davanti alla televisione per seguire un avvenimento come quello consumatosi ieri nella tarda serata a Parigi. Lo sbigottimento cresceva ora dopo ora, come anche due certezze: che nel teatro Bataclan sarebbe stato fatto uno scempio orribile, e che i miei colleghi televisivi non agognavano altro, perché il giornalista intriso di adrenalina si sa comportare peggio di un terrorista.
Non è la prima volta che il terrorismo islamico – quello che io chiamo il nazismo islamico – attacca l’Europa. Tutti hanno ricordato ancora Parigi, il Charlie, a inizio 2015, ma non dimentichiamo ciò che fu fatto a Madrid, ad esempio.
In questi casi, credo, è meglio riflettere. Evitare di uscire con titoli di giornale come “Bastardi islamici”, che è non solo folle, ma anche deontologicamente inaccettabile. Ma è partendo da certi atteggiamenti che dobbiamo fare uno sforzo per capire due cose, facendoci un esame di coscienza.
La prima: i terroristi islamici non rappresentano il mondo musulmano, ma solo se stessi. Sono un manipolo di mercenari e di reietti della società, ottimi pagatori quando comprano armi e munizioni, almeno 1.500 dei quali cresciuti nelle periferie parigine, andati ad addestrarsi e a subire l’indottrinamento dell’Isis in Siria o in Iraq, e poi tornati come cellule dormienti. Un governo come quello francese, dei servizi segreti come quelli francesi, dovrebbero saperlo e approntare le necessarie contromisure. Invece sono state ammazzate 128 persone innocenti… in nome di un Dio che con quegli atti non c’entra assolutamente nulla. Io resto sempre dell’avviso che avesse ragione Karl Marx e che la religione sia – inopportunamente confusa con la fede – una sovrastruttura utile per indottrinare e per manovrare le masse, in particolare le parti meno acculturate di quelle. Credo che anche Papa Francesco sia un po’ marxista, anche se non lo può dire. E credo che tutti dovremmo rileggere Marx, per provare a interpretare la realtà che viviamo sotto una lente diversa, ormai da molti erroneamente ritenuta inusuale e inattuale.
La seconda: oggi siamo tutti francesi, ieri sera e per tutta la notte mi sono sentito empaticamente in modo completo e assoluto dalla parte delle vittime, dei parenti, del popolo francese. Per tanti, tantissimi italiani è stato così. Ed è profondamente giusto. Quando ci furono gli attentati ferroviari di Madrid, e quando le Torri Gemelle vennero buttate giù portandosi dietro e dentro circa tremila innocenti, tutti siamo stati dalla parte di quei popoli, di cui siamo e vogliamo essere fratelli. Ma non dobbiamo dimenticare che, volenti o nolenti, siamo fratelli anche dei siriani, che da quasi cinque anni subiscono un destino orribile; siamo fratelli delle donne e dei bambini kurdi, davanti ai cui occhi le bestie dell’Isis massacrano gli uomini per poi vendere madri e figli nei mercati degli schiavi; siamo fratelli dei tanti civili iracheni ammazzati dalla marmaglia estremista islamica; siamo fratelli delle vittime civili ammazzate a mucchi dagli estremisti terroristi e assassini di Boko Haram, e di tutte le vittime civili innocenti di ogni conflitto. Questo per dire che non dobbiamo solo commuoverci per fatti mostruosi che ci toccano in quanto europei, bianchi e cristiani, ma dobbiamo sentirci colpiti e parte in causa per ogni sciagura che riguardi civili inermi, indipendentemente dal loro colore della pelle, dalla loro religione, dalla loro appartenenza etnica o culturale o sessuale. Non possiamo sentirci pietosi solo verso coloro che ci sono simpatici o che sentiamo uguali. La pietà non conosce differenze, così come l’empatia. Piangiamo le vittime di Parigi, perché è giusto. Ma, con loro, piangiamo anche tutte le altre che sono state ammazzate o violate prima di loro. Perché altrimenti non ci riapproprieremo mai e poi mai della nostra umanità. Perché sennò non saremo uomini e donne, ma saremo uomini e donne razzisti. Anche nella pietà.
Il futuro ora è nelle mai di alcuni potenti. La risposta è nelle loro decisioni. Ci sono i peshmerga (“coloro che si trovano di fronte alla morte”) kurdi abbandonati dal mondo e oggetto degli aggiri e dei tradimenti di un Paese, la Turchia, che dice di stare da una parte ma poi commercia e “fila” con l’altra, col nemico, coi terroristi nazisti dell’Isis. La prima mossa dovrebbe partire da lì: smascherare l’impresentabile governo turco e sostenere i combattenti kurdi, riconoscendone lo Stato e armandoli. Poi è evidente che serve un intervento di terra in Siria e in Iraq, e Russia e Stati Uniti, con l’Iran, dovranno trovare un’intesa, altrimenti non se ne verrà mai a capo. E nuovi attentati torneranno a mietere vittime inermi e innocenti in Europa e nel resto del mondo. Mentre civili inermi e innocenti ogni giorno continueranno a bagnare di sangue la terra dura del Medio Oriente.
“Se non arriva qualche segnale chiaro che l’aggressione non paga e che a nessuno può essere lecito partire per le proprie conquiste territoriali e conseguenti omogeneizzazioni etniche, allora ogni altro sforzo civile si sgretola o si logora. A Sarajevo la parola Europa è ormai associata alla parola cetnik, e nulla nella politica europea lascia pensare che davvero si preferiscano stati democratici piuttosto che etnici.
Chi non vuole prendere atto di questa realtà, continua a mettere sullo stesso piano Karadzic e Izetbegovic (come fa ormai il manifesto), e sventola il pur assai promettente inizio di dialogo tra moderati bosniaci e serbi moderati di Pale come dimostrazione che esiste un’alternativa a ciò che viene chiamata la militarizzazione del conflitto.

Sejfudin Tokic è uno dei promotori del dialogo di cui sopra. Tokic è il compagno politico di quel Selim Belsagic che ci ricorda che chi non fa niente contro "i fascisti che ci bombardano, è loro complice". Con che faccia continueremo a blaterare di ONU e OSCE come futura architettura di pace e di sicurezza, se poi i soldati dell'ONU diventano ostaggi ed il loro mandato consente loro solo la forza necessaria per proteggere se stessi ed i loro compagni?”: questo scriveva Alexander Langer il 25 giugno 1995 a proposito della guerra in Bosnia Erzegovina.
Ecco, noi ci ostiniamo a non voler mai imparare, eppure quel che sta accadendo in Siria e in Iraq, e ciò che sta accadendo di riflesso in Europa, lo abbiamo già vissuto, in altri tempi e in altre forme. C’è un pacifismo che può voler e dover richiedere l’uso della forza per ripristinare una condizione che non c’è più: la pace. Se ci nascondiamo dietro a un filo d’erba, non usciremo mai dalle nostre contraddizioni.
L’Europa sa ormai solo ergere muri e steccati e non sa più parlare a nessuno, a cominciare dai cittadini europei stessi. E gli Stati Uniti hanno un presidente a fine mandato incapace di decidere, perché ha paura di dimostrare al mondo quel che già tutti sanno, ovvero che non merita il Nobel per la Pace che gli è stato assegnato sulla parola. Inutile parlare della Russia, in mano a un impresentabile comitato d’affari che s’è arricchito sulle spalle del popolo e non mollerà mai il potere.
Siamo in mano a potenti che non sono statisti. L’Italia, l’Europa e il mondo non ne hanno da decenni. Non si sa come faremo, ma se non ci sforziamo di restare umani e di provare pietà per tutti, anche e soprattutto se diversi, diventeremo come i nostri governanti. E allora i guai saranno davvero seri.
Una preghiera laica per le povere vittime di Parigi. Una preghiera laica per tutte le povere vittime di un conflitto che nessuno ha voluto prevenire, e grazie al quale in tanti stanno arricchendo. Alle nostre spalle e nostra colpevole insaputa. Perché non c’è cieco più cieco di chi non vuol vedere.