domenica 25 gennaio 2015

Riflessioni sparse e combattive dopo una notte insonne

Ci sono momenti in cui una persona è stanca. Io sono stanco. Non per il fatto che non dormo ormai da circa trenta ore. E neppure per i danni e il furto di ieri. Sono stanco per tante altre ragioni. È una stanchezza mentale che sa di delusione e qualche volta di sconfitta. Non per il lavoro che faccio, ma per il modo in cui ormai tutti viviamo. Non mi riconosco più quasi in nulla. Prendete la politica. La mia laurea in Scienza politiche è figlia del fatto che ero e mi sentivo fortemente un animale sociale. Il mio essere di una sinistra che non esiste e non esisterà mai è figlio di incontri, letture, suggestioni. Una su tutte. Avere tredici anni, essere figlio di un oscuro ragioniere e di una casalinga di famiglia contadina – fondamentalmente due democristiani bacchettoni, mio padre anche molto ipocrita e tante altre cose – e avere Sandro Pertini che ti si avvicina, ti mette una mano su una spalla e ti risponde con dolcezza a una domanda magari ingenua, ma scaturita dal cuore, ti cambia la vita, se hai quel minimo di sensibilità. A me Sandro quel giorno ha cambiato la vita. Per questo lui è il mio unico Presidente. Come ti cambia la vita avere avuto un nonno messo al muro dai nazisti e salvatosi per il rotto della cuffia, socialista nenniano e anti-craxiano fin nel midollo (dava del ladro a Bettino molti anni prime delle famosa pioggia di cento lire); e un altro che s’è fatto tre anni di campo di prigionia nel deserto durante la seconda guerra mondiale e poi è morto giovanissimo a causa di quegli stenti. Lo ricordo che avevo cinque anni e dolcemente mi leggeva “Topolino”. Poi, all’improvviso, non c’è stato più. O un bisnonno che ha fatto le porcherie che hanno fatto gli italiani nelle guerra di Libia.
Insomma, io sono figlio di tutte queste sensazioni ed emozioni messe in fila una dopo l’altra, e vissute con un’intensità che oggi forse non saprei più raggiungere. E come me ce ne sono tanti, anche molto ma molto migliori.
Ora, lo ammetto e lo confermo: sono stanco. Per tante ragioni che sarebbe inutile enumerare. E molte volte avrei voglia di chiudere tutto e andarmene da un’altra parte. Lontano. Poi mi rendo conto che oggi “lontano” è un concetto tanto astratto da essere diventato utopia. “Lontano” non esiste più, geograficamente. Esiste solo nel sentire di ciascuno di noi. E oggi siamo troppo spesso troppo lontani, anche se magari viviamo per ore o per tutta la vita sotto lo stesso tetto.
Ieri sera, però, nello sfacelo e nella rabbia, con quei passi di vandali ladri che si allontanavano rapidi facendo crocchiare sinistramente i vetri spaccati, mentre mi aggiravo furibondo con un bastone in mano per l’ufficio, m’è caduto l’occhio su un libro in particolare. Nello sfacelo, uno solo, girato di quarta, con un’impronta fangosa sopra e la copertina mezza accartocciata. Ho visto lo sguardo sorridente, forse un po’ forzato, della povera Alda Radaelli e m’è tornata in mente la sua passione, anche a pochi passi dalla morte, mi è tornata in mente le nostra Bosnia, Sarajevo. Se la sono presa con la collana Orienti, il nostro fiore all’occhiello, la mia passione più grande, quella per cui sto preparando con Maria Cecilia e Betta un 2015 con i controfiocchi, per non cedere neanche un passo alla propaganda oscurantista e revisionista. Accanto a “Sabur” c’erano le copie maciullate di “La lumaca e il tamburo”: ancora Bosnia, ancora un amico che non c’è più e che forse proprio la Bosnia s’è portato via, o il Kosovo, o tutti e due: Paolo Vittone. Il povero Paolo Vittone che mentre scriveva l’ottavo capitolo mi chiamava trafelato e mi diceva, ve lo giuro: “Non t’incazzare con me se ti chiedo troppo nel fare la correzione delle bozze, ma io sto morendo e voglio vedere nascere questo libro. Sto scrivendo in piedi perché la morfina non mi fa più effetto e seduto proprio non ce la faccio. Aiutami, fai uscire questo libro”. Paolo non ha mai visto “La lumaca e il tamburo”. È morto sul nono capitolo, dopo una chemio, ascoltando musica classica in ospedale con accanto Paolo Rumiz a raccoglierne gli ultimi sospiri. E Paolo Rumiz ha finito il nono e riscritto il decimo capitolo, oltre alla stupenda introduzione al libro di Paolo Vittone. E ho pensato a un altro povero amico che non c’è più, il magnifico e sempre positivo Angelo Lallo, stroncato meno di un anno fa da un infarto senza la gioia di prendere in mano il suo “Mala dies”, il suo capolavoro, il suo testamento spirituale, denso, profondo, lirico, tosto, com’era Angelo nella vita. E poi la nostra Barbara Fabiani…
Alla fine ti dici che, nonostante vivi in un Paese orribile con una classe politica orribile e tante persone orribili, hai comunque scelto una strada, mica facile, e non puoi tirarti indietro. Perché quella strada va percorsa ancora a lungo per affermare princìpi mica da poco.
Insomma, il libro con sopra il mezzo busto sorridente di Alda è ancora lì, a guardarmi. Butterò quel libro perché è troppo dura tenerlo. Ma la lezione resta, forte. E la voglia, nonostante la stanchezza, è più forte. La cultura in Italia è un oggetto estraneo, un ufo, un “visitor”, un portasfortuna, una inutilità, un vacuo hobby per sfigati. Proprio per questo vale la pena continuare a mettercela tutta. Perché non c’è niente di più bello che andare controcorrente. Può capitare di annaspare. Ma se affoghi, lo farai sempre a testa alta. E in tempi di struzzi e di stronzi, è una medaglia al valore appuntata sulla giacca, anche se magari ad eterna memoria (che ormai, d’eterno, non c’è proprio più niente).
Questo mi è venuto in mente in libertà. Poi, resti tra noi, se puta caso dovessi ritrovarmi quei vandali tra le mani ad armi pari, non lo so come finisce. La stanchezza non è passata, ma la voglia di guerreggiare è di nuovo qui.
Buona domenica.

Ps: e mentre il nostro amministratore firmava scartoffie in caserma, io stamattina ho piantato fiori, alla faccia dei cementificatori di tutto il mondo!