Srebrenica,
per la storia, è un piccolo punto sulla mappa della ex-Jugoslavia. Un angolo di
Balcani dove, tra l'11 ed il 16 luglio 1995, le milizie serbo-bosniache di Ratko
Mladić massacrarono tra le 8 e le 10mila
persone, tutti i maschi musulmani catturati dopo la caduta di quella piccola
enclave. In quella cittadina avevano vissuto, isolate dal mondo e in condizioni
di totale privazione, assediate per tre anni, quasi 40.000 persone, in
maggioranza profughi giunti da altri villaggi caduti nelle mani dei
serbo-bosniaci.
Tutti
i miei ricordi legati a Srebrenica, belli o brutti, assomigliano a foto in
bianco e nero. La distesa di lapidi a perdita d'occhio, l'infinito elenco di
nomi incisi nella pietra al memoriale di Potočari. Le centinaia di sacchi,
pieni di resti umani, allineati e catalogati al centro di identificazione di
Tuzla. Un pomeriggio di luglio del 2009 in cui, da un bar di Srebrenica,
assisto alla grottesca parata dei nazionalisti serbi in città: fischi, sputi,
insulti dalle porte e dalle finestre, la polizia (serba) che li difende, quasi
li scorta e allora penso "questo Paese non cambierà mai, è tutta fatica
sprecata". Ma pochi giorni dopo i bambini di Osatica si riprendono le vie
del centro con un'allegra e carnevalesca sfilata in maschera, strappano sorrisi
ai negozianti che escono sulle porte, va di nuovo tutto bene.
A
Srebrenica incontro per la prima volta un fuoristrada di Tuzlanska Amika, poi conosco la sua fondatrice Irfanka Pasagic e l'associazione Adottando,
che da Bologna collabora con Tuzlanska
Amica: io e Giorgia adottiamo a distanza Bojan, un bimbo serbo di
Srebrenica, nato come i suoi tre fratelli nel campo profughi Baratova: la
dimostrazione vivente che a Srebrenica, come nel resto della Bosnia-Erzegovina,
hanno perso tutti.
L'ultima
foto in bianco e nero ritrae un'altra giornata caldissima, forse d'agosto, in
cui passo davanti al memoriale di Potočari con Giorgia, la nostra bimba Guo e un ragazzo
bosniaco. Sta guidando lui la macchina e all'improvviso abbassa completamente
il volume della radio, un gesto che da allora faccio sempre anch'io, in segno
di rispetto, quando transito davanti a quel luogo. Lui continua a guidare e
guarda fisso avanti, sembra un po' smarrito. A pranzo, poi, ci spiega che
sarebbe già qualcosa, per lui, se i suoi genitori fossero sepolti lì: almeno ci
sarebbe una tomba su cui piangerli. E allora capisco la fatica enorme dei
sopravvissuti: nati in un Paese che non esiste più, incapaci di comprendere
eppure obbligati a provarci continuamente, col dubbio perenne che se,
semplicemente, non fossero mai esistiti forse il resto del mondo si sentirebbe
più leggero, sollevato da un'enorme e giustificatissimo senso di colpa.
(Associazione Adottando Onlus - Bologna)