lunedì 7 luglio 2014

Srebrenica, 19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Matteo Pagliani/Adottando Onlus


Srebrenica, per la storia, è un piccolo punto sulla mappa della ex-Jugoslavia. Un angolo di Balcani dove, tra l'11 ed il 16 luglio 1995, le milizie serbo-bosniache di Ratko Mladić  massacrarono tra le 8 e le 10mila persone, tutti i maschi musulmani catturati dopo la caduta di quella piccola enclave. In quella cittadina avevano vissuto, isolate dal mondo e in condizioni di totale privazione, assediate per tre anni, quasi 40.000 persone, in maggioranza profughi giunti da altri villaggi caduti nelle mani dei serbo-bosniaci.
Tutti i miei ricordi legati a Srebrenica, belli o brutti, assomigliano a foto in bianco e nero. La distesa di lapidi a perdita d'occhio, l'infinito elenco di nomi incisi nella pietra al memoriale di Potočari. Le centinaia di sacchi, pieni di resti umani, allineati e catalogati al centro di identificazione di Tuzla. Un pomeriggio di luglio del 2009 in cui, da un bar di Srebrenica, assisto alla grottesca parata dei nazionalisti serbi in città: fischi, sputi, insulti dalle porte e dalle finestre, la polizia (serba) che li difende, quasi li scorta e allora penso "questo Paese non cambierà mai, è tutta fatica sprecata". Ma pochi giorni dopo i bambini di Osatica si riprendono le vie del centro con un'allegra e carnevalesca sfilata in maschera, strappano sorrisi ai negozianti che escono sulle porte, va di nuovo tutto bene.
A Srebrenica incontro per la prima volta un fuoristrada di Tuzlanska Amika, poi conosco la sua fondatrice  Irfanka Pasagic e l'associazione Adottando, che da Bologna collabora con Tuzlanska Amica: io e Giorgia adottiamo a distanza Bojan, un bimbo serbo di Srebrenica, nato come i suoi tre fratelli nel campo profughi Baratova: la dimostrazione vivente che a Srebrenica, come nel resto della Bosnia-Erzegovina, hanno perso tutti.
L'ultima foto in bianco e nero ritrae un'altra giornata caldissima, forse d'agosto, in cui passo davanti al memoriale di Potočari  con Giorgia, la nostra bimba Guo e un ragazzo bosniaco. Sta guidando lui la macchina e all'improvviso abbassa completamente il volume della radio, un gesto che da allora faccio sempre anch'io, in segno di rispetto, quando transito davanti a quel luogo. Lui continua a guidare e guarda fisso avanti, sembra un po' smarrito. A pranzo, poi, ci spiega che sarebbe già qualcosa, per lui, se i suoi genitori fossero sepolti lì: almeno ci sarebbe una tomba su cui piangerli. E allora capisco la fatica enorme dei sopravvissuti: nati in un Paese che non esiste più, incapaci di comprendere eppure obbligati a provarci continuamente, col dubbio perenne che se, semplicemente, non fossero mai esistiti forse il resto del mondo si sentirebbe più leggero, sollevato da un'enorme e giustificatissimo senso di colpa.

Matteo Pagliani
(Associazione Adottando Onlus - Bologna)