mercoledì 25 settembre 2013

"Andare oltre": il viaggio in Bosnia di Nadia Ravioli

Cari Amici,
come sapete stiamo preparando un viaggio in Bosnia Erzegovina dal 31 ottobre al 5 novembre 2013 (l’altro viaggio, quello dal 26 ottobre al 1° novembre, è stato invece rinviato per questioni tecniche).
Qui di seguito è invece un grande piacere proporre alla vostra attenzione e lettura un testo scritto (e corredato da sue foto) da Nadia Ravioli, attivista milanese di Emergency e amica che è partita con noi nel precedente viaggio in Bosnia, quello del 17-22 maggio 2013.
Vi propongo il testo completo di Nadia, le sue emozioni, la sua passione. Nadia sarà con noi anche nel viaggio del 31 ottobre-5 novembre. Perché la Bosnia fa questo effetto, come ben sappiamo in tanti, ed è impossibile non tornarci appena possibile.
Grazie Nadia!

La mia Bosnia
testi e foto di Nadia Ravioli
Eccoci, ci siamo, a breve si parte. Quando Luca ha mandato l’invito per il viaggio in Bosnia non ho neanche guardato l’itinerario,  ho detto subito di sì. Erano almeno 3 anni, da quando l’ ho conosciuto agli Emergency days di Modena che gli ho chiesto se per caso aveva intenzione di organizzare un viaggio in Bosnia. Io ci sono già stata a Sarajevo con l’associazione Sprofondo per un capodanno molti anni fa e ci sono poi ritornata di sfuggita un altro capodanno che con due amici si era deciso di andare a Belgrado. E’ sempre bello tornarci e così pochi giorni fa siamo partiti. Sarajevo è una città che ti rapisce il cuore.
E’ venerdì 17 e prendo il treno da Milano alle 9.20. Sono felice, ho la sensazione che sarà un viaggio intenso ma bellissimo. Arrivo da un periodo molto difficile, e così via, sono sul treno. Arrivo ad Ancona prestissimo, perché l’appuntamento alla biglietteria è alle 18.00. Ho voglia di fare una passeggiata al porto e non di prendere l’autobus per arrivare al luogo dell’appuntamento ma alla stazione mi danno delle indicazioni sbagliate e quindi mi piazzo alla fermata dell’autobus ad aspettare il numero 20 che porta alla biglietteria del porto. Aspetto un’ora sotto un sole cocente, alla fine cedo e chiamo uno degli organizzatori: Claudia.

Al telefono le spiego, un po’ alterata che il bus per la biglietteria non passa, e che è più di un’ora che aspetto, e che sono partita presto da Milano e che le cose da una certa regione in giù non funzionano mai. Insomma mi faccio subito la fama della milanese rompiscatole. Aspetto la telefonata di Claudia che mi avvisa che la navetta parte dalla stazione alle 17.30 e così riesco a prendere subito la prima. Anche perché il problema grosso era che da li partono tutti gli autobus che vanno a  Medjugorie  a vedere la madonna e quindi tutti ti chiedono se vai da quella parte pure te. La risposta è sempre quella: assolutamente no, io vado in Bosnia.

Sulla navetta incontro subito Virginia e Michela, poi appena arriviamo alla biglietteria vedo le ragazze del gruppo di Emergency di Modena. Ci salutiamo e poi piano piano arrivano tutti gli altri del gruppo. Arriva Luca, che conosco e poi Giovanni e Claudia. Saliamo sull’autobus e ci dirigiamo verso l’imbarco. Michele, l’autista del bus ha un accento strano, non riesco a capire bene se è italiano oppure no, ma questo non è importante, ovviamente. E invece no, ha fatto la differenza ma lo scoprirò solo più avanti.  Claudia distribuisce le chiavi delle cabine così riusciamo a mollare borse e zaini e a salire sul ponte per fare delle foto prima della partenza. All’inizio parlo molto con le ragazze di Emergency che già conosco ma ben presto anche con le mie compagne di cabina, Michela, Virginia e Loredana. Con me facciamo 4 generazioni di donne! Saliamo al self service a mangiare insieme agli altri e qui incominciamo a chiacchierare con tutti, poi si va a nanna che domani la sveglia suona alle 6, perché alle 7.30 si sbarca a Split.

Sabato 18, Pocjtelj e Mostar

Ci alziamo e via a far colazione veloce che poi si scende dalla nave. Saliamo tutti sul bus che è grande e quindi staremo molto comodi. Prendiamo subito l’autostrada  poi arriviamo a costeggiare il mare della Croazia, bellissimo, ci sono scorci meravigliosi. Ci fermiamo per un pit-stop, che in gergo significa che facciamo una sosta in un bar per bere un caffè e usare il bagno. E qui il nostro autista Michele si svela per quello che in realtà è: uno showman! Tutti quanti ci sciogliamo alle sue battute come panetti di burro al sole. E di sole ce n’è tanto e caldo, il paesaggio è incredibile.

Arriviamo a Pocitelj, un gioiellino di paese arroccato con una vista incredibile, un tempo crocevia importante della zona, ora ridotto a poche presenze che lo abitano.

C’è la piccola moschea dove la seconda preghiera del giorno ci accoglie e così facciamo scatti alle donne che restano fuori dalla porta.

Mi colpiscono le donne che vendono ciliegie incartate nei coni di carta, come da noi una volta le caldarroste. E poi altra frutta come fragole,fichi e albicocche secche.  Il cielo è terso e la giornata è calda, per me che arrivo da giorni di pioggia a Milano è bello sentire la pelle scaldata dal sole. Intanto si parla, si ascolta Luca che ci racconta. Compro subito un flautino per un caro amico e poi si riparte, direzione Mostar.

 

Ci arriviamo per l’ora di pranzo, il bus lo lasciamo in un parcheggio dove poco più avanti c’è una chiesa cattolica enorme, orrenda, quasi a mostrare solo la presenza di persone di quella religione e nient’altro.

Ci avviamo nel centro di Mostar dove c’è il famoso ponte, distrutto durante la guerra e ora ricostruito, pare anche con le vecchie pietre recuperate nel fiume. Ci fermiamo in un posticino niente male per mangiare il mitico cevapcici, che io avevo già assaggiato durante i miei passaggi precedenti, e che non vedevo l’ora di riassaggiare. Si chiacchiera in serenità anche se siamo un po’ divisi sui tavoli. Finito il pranzo, si inzia il giro nella parte vecchia che sembra molto “ripulita” per i turisti. Sul ponte c’è perfino un ragazzo che, per soldi, si tuffa nel fiume anche se è molto pericoloso perché nel fondale ci sono delle grosse rocce.

 

Finito il giro, risaliamo sul bus in direzione Sarajevo. Ci becchiamo un po’ di musica che piace a Miguel (tipo Laura Pausini e quindi scatta l’auricolare dell’MP3 nelle orecchie) che nel frattempo ha svelato il carattere gioioso e buffo con quella sua parlata da italo-brasilero. Entriamo nel vialone dei “cecchini”. Ricordo che dall’ultima volta sono spuntanti altri palazzoni di vetro lucidissimi che non stanno bene accanto ai palazzi con ancora i segni della guerra che nessuno ha riparato. Ci sono ancora edifici , come quello della stampa, lasciato lì, così come è stato distrutto a memoria di quello che è successo.

Arriviamo all’hotel Saraj, che si trova in fondo alla città su di una salita. Da lì c’è una vista meravigliosa sull’intera città. Claudia con santa pazienza incomincia la distribuzione delle chiavi per le stanze, e io sono in camera con Virginia, la nostra mascotte, perché la più giovane del gruppo.  Ceniamo in albergo e accidenti, mi scordo che qui si parte sempre con la zuppa! Vabbè, ne assaggiamo 2 cucchiai e poi passo al secondo. Stasera si va a bere la pivo nella famosa birreria Sarajeskava ma una volta arrivati all’ingresso ci dicono che c’è una festa privata, “private party”, e non possiamo entrare. Delusi ce ne andiamo a passeggiare per la Bašćaršija, la zona vecchia della città. Girando riusciamo a trovare un Irish pub, perché ovunque io vada, trovo sempre “casa”. E’ così che chiamo gli Irish pub, di cui ho il cuore per metà.

E qui si incomincia a vedere la forma del gruppo, cioè un agglomerato di caos infernale. Per decidere dove sederci e se sederci tutti quanti smobilitiamo non so quanti tavoli e sedie e finalmente riusciamo a sistemarci e a bere, chi la birra chi la rakija. Le risate si sprecano, io mi sento molto bene insieme a queste persone che non conosco o conosco poco, però l’atmosfera che si sta creando mi piace moltissimo. Piano piano quasi tutti tornano in albergo, tranne 5 irriducibili che prima di arrivare in hotel si fermano in un locale tipo discoteca per l’ultima birra. Premetto che quella sera, sabato, ho notato che tutti i ragazzi e ragazze di Sarajevo erano vestiti da gran sera. Le ragazze  poi, sfoggiavano abiti meravigliosi e tacchi vertiginosi. Detto questo, io, Virginia, Claudia, Luca e Giovanni ci presentiamo all’ingresso del locale, e Luca che capisce un po’ la lingua spiega al buttafuori che vogliamo entrare per bere una birra. Il primo buttafuori dopo qualche battuta ci lascia passare, ma non riusciamo a passare la seconda selezione da parte del secondo buttafuori, nonostante il primo abbia ricordato al secondo che eravamo italiani. Non c’è stato verso, ci siamo visti rifiutare l’ingresso in un locale bosniaco per il nostro abbigliamento!!! Il primo buttafuori prendendo un angolo della giacca della tuta di Luca (che in quei giorni vestiva solamente con le tute da ginnastica) lo guarda con disprezzo come dire: ma dove pensi di andare vestito così? E io che vedendo uscire due ragazze bellissime vestite, una con un abito albicocca lungo con il corpetto a cuore e l’altra con un vestito blu cina più corto con le spalline, entrambe con tacchi altissimi,  le guardo e poi dirigendo lo sguardo al secondo buttafuori dico in italiano, ma capibilissimo visto i gesti: e certo, noi non siamo vestite come loro, c’è una bella differenza!. Lui sorridendo ci dice di andare fuori.

Come 5 cagnolini bastonati ma piegati in due dalle risate ritorniamo in hotel, restiamo seduti nella hall ancora un po’ per le ultime 4 chiacchiere della notte e poi andiamo a dormire. Io con la consapevolezza che al prossimo viaggio porterò con me sicuramente un vestito da sera, magari color albicocca!

 

Domenica 19, Sarajevo

Io e Virginia ci svegliamo verso le 7, più io perché lei vorrebbe stare ancora un po’ a letto. Ci prepariamo e scendiamo al ristorante a fare colazione. Io non prendo troppe cose, un thè con del pane e marmellata.  Come una bimba mi sbrodolo della marmellata sulla maglietta, vado in camera a pulirmi e così arrivo tardi all’appuntamento nella hall per il giro della città. Mi aspetta Claudia, gentilissima, percorriamo la salita dove raggiungiamo gli altri nel punto dove si vede tutta la città. Anche oggi c’è un bel sole, e a breve ci incontreremo con Kanita, architetto che da molti anni collabora con il contingente italiano come traduttrice. Da questo punto panoramico si vede anche un cimitero. Si perché da queste parti non è difficile trovare  interi prati con stele bianche. Qui è dove sono stati seppelliti i mussulmani uccisi, cimiteri che sorgono a macchia di leopardo per tutta la città di Sarajevo e su tutto il territorio bosniaco.

Dopo aver fatto le foto al paesaggio, ci dirigiamo all’appuntamento con Kanita, Luca ci ha preceduto perché lei è una donna molto puntuale e precisa. Noi arriviamo subito dopo.

Ci sta aspettando sul ponte di fronte alla biblioteca nazionale, proprio quella che è stata bruciata durante l’assedio. Kanita è una bella donna, elegante, ha uno sguardo fiero, si vede che è figlia di un militare e parla molto bene l’italiano. Incomincia a raccontarci della storia del suo popolo. Resto colpita da quel suo “noi” che usa sempre, quando parla della sua gente, non usa mai “i serbi” o “i mussulmani” o “i cristiani”. Ci ha spiegato che questa terra è sempre stata una mescolanza di mille cose, che è difficile separare. Lei è cristiana ma il marito era mussulmano. Era, perché è morto all’inizio dell’assedio di Sarajevo da parte dei serbi. Lei è rimasta sola a crescere due bambini e che ora sono il suo orgoglio maggiore.  Ci racconta la storia della casa del dispetto, e anche questa storia o  leggenda che sia, fa capire quanto queste persone tengano alla propria casa e terra e sappiano farsi valere anche di fronte ai poteri forti come il comune o lo stato. Insomma hanno un carattere molto forte, e a me piacciono un sacco.

Ci dirigiamo nella Bašćaršija a visitare il carovanserraglio , la via del rame con i suoi artigiani meravigliosi fino ad arrivare alla Moschea. Aspettiamo il nostro turno, e come di consueto noi donne dobbiamo coprirci il capo con un foulard. La moschea è molto bella e come spiega Kanita è essenziale. Tutte le moschee hanno le stesse caratteristiche, la nicchia di fronte e sulla destra delle scale intarsiate in legno dove il capo spirituale parla alla gente, in alto le scritte in arabo e i pavimenti pieni di tappeti.

In questa moschea, entriamo senza doverci togliere le scarpe, perché hanno steso un panno per non far toccare il pavimento.  Luca o Giovanni ci fanno notare il cartello con i divieti, una tempo molto più numerosi ora ridotti a 4 o 5, ma quello più buffo è quello del divieto di effusioni in pubblico tra donne e uomini.

Di fronte alla moschea c’è la Madrassa, la scuola coranica ma non possiamo entrare. Ora è il turno del museo ebraico, antica sinagoga, ora in quel luogo espongono le opere d’arte gli scultori tra cui il figlio e la nuora di Kanita. Lei è bravissima a spiegarci la storia di questo paese, che ha mantenuto tesori incredibili negli anni, fino al tempo della guerra, quando sotto i bombardamenti serbi, alcuni di questi tesori sono andati perduti. Ora è il turno della chiesa ortodossa di S. Michele con il suo museo. Piccola ma molto bella, e anche qui c’è una storia molto interessante sulla distruzione e ricostruzione della chiesa. Anche questo racconto dimostra come questa gente si è sempre aiutata e rispettata in quanto persone e non per la religione in cui credono.

 

Accanto a questa chiesa c’è il museo con icone e oggetti bellissimi. Prima di rientrare verso la Bašćaršija visitiamo l’ultima chiesa, quella cattolica.  Tutti quanti questi luoghi di culto religioso si trovano molto vicini uno all’altro. Anche questo è un segnale forte di quanto questo territorio unisse la mescolanza di popoli e culture diverse.

E’ ora di pranzo, abbiamo tutti una gran fame, e Kanita ci porta nel posto dove si mangia la migliore pita di Sarajevo. Unico inconveniente che Roberto, soprannominato Bob da Virginia, resta indietro, incantato a fare scatti fotografici alla città. Lo perdiamo, e così Luca ripercorre la strada fatta per recuperarlo. Arrivano quando noi tutti ci stiamo leccando i baffi dopo aver mangiato dell’ottima pita.

Ora è venuto il momento di andare a visitare il museo dell’assedio. Ci arriviamo con il bus guidato da Miguel perché si trova dalla parte opposta di dove ci troviamo noi. Kanita incomincia a raccontarci i primi giorni dell’assedio di Sarajevo nel 1992, di quando la popolazione si era accorta dei blindati che stavano circondando la città e di come le autorità rispondevano alla cittadinanza per tranquillizzarli. Entriamo nel museo e dagli oggetti esposti si capisce già parecchio e i racconti di Kanita chiudono il cerchio per farci capire il dramma, la paura, il terrore, la fame provata da queste persone, di cui alle altre nazioni non importava nulla. Si capisce benissimo anche dai viveri che gli americani mandavavo loro. Scatolame avanzato dalla guerra del Vietnam, così le gallette di pane e altri alimentari tipo il burro di arachidi che vorrei capire bene a cosa cavolo doveva servire.  Hanno ricostruito anche una cucina, dove grazie ai bravissimi artigiani tutto veniva riciclato per creare delle stufe per potersi scaldare. Nei dintorni della città, solitamente piena di boschi in quel periodo non c’era un albero. Kanita ci spiega la sofferenza e la miseria vissuta ma anche l’immensa solidarietà tra la gente. Ci Ha spiegato che i ragazzi nonostante l’assedio non persero un solo giorno di scuola e che se gli adulti riuscivano ad avere una mela, veniva equamente divisa  tra i bambini.

Di come nonostante la tragedia che stavano vivendo con le sue amiche riuscivano anche a scherzare sul fatto che stavano perdendo peso a vista d’occhio e invece in occidente le persone erano costrette a fare diete assurde per dimagrire. Questa donna ha una forza incredibile che si percepisce nel suo sguardo fiero. Io vorrei fare mille domande a Kanita, anche molto personali, ma le trattengo tutte un po’ per pudore, perché non sono certa che parlerebbe davanti a tante persone. Spero solo di rivederla al più presto, magari per approfondire certe cose che ci ha raccontato ma so che con persone come lei la fiducia del raccontare va conquistata un pochino alla volta.

Usciti dal museo dell’Assedio ci dirigiamo al caffè di Tito dove incontriamo il regista Ado Hasanovic. Silvia ci ha preceduto perché dove abita lei stanno sviluppando un progetto e quindi aveva bisogno di parlare con lui di questo. Anche qui al caffè di Tito facciamo il solito casino per riuscire a sederci tutti fuori, beviamo una buona pivot fresca e poi ci spostiamo tutti per parlare con Ado. Kanita traduce le parole di Ado, Bob scatta foto a tutti, io spero di vedere presto un corto di Ado in quanche festival italiano e dopo mille saluti torniamo in albergo, chi con il bus, chi a piedi per prepararci ad uscire a cena. Questa volta abbiamo deciso di andare fuori, in un ristorante consigliato da Claudia, Luca e Giovanni. Non vengono con noi Silvia, la sua amica e Michela che invece escono a cena con Ado.

Prima di tornare il albergo però con Luca, Giovanna e Virginia decidiamo di incominciare a comprare dei souvenir, così ci facciamo accompagnare nella via degli artigiani e qui ci scateniamo negli acquisti. Io compro un braccialetto dove mi viene inciso il mio nome, Sarajevo e l’anno, poi degli orecchini e per ultimo trovo finalmente l’orologio da portare al collo, poi compro anche il set da due per servire il caffè turco (bellissimo).

Torniamo in hotel e ci prepariamo per la cena. Io indosso subito tutto e per l’occasione mi trucco un po’. Purtroppo l’abbigliamento lascia molto a desiderare, perché stupidamente non mi sono portata nulla di carino da indossare ma solo abbigliamento pratico da trekking. Per andare al ristorante prendiamo il bus, facciamo tutto il giro della città per poi scoprire che il ristorante era in linea d’aria molto vicino all’hotel ma complicato da arrivarci con quel mezzo di trasporto.

Arriviamo al ristorante e io rimango senza fiato. C’è una vista stupenda su tutta la città illuminata. E’ uno spettacolo meraviglioso, il tempo di sistemarci ai tavoli e scatto subito delle foto. Al tavolo siamo io, Virginia, Laura, Enrico, Giovanni e Luca. Decidiamo di prendere del vino rosso serbo. Giovanni storta un po’ il naso ma poi acconsente. Le battute e le risate si sprecano, anche perché appena ci sediamo arriva il gruppo di musici a suonarci una canzone italiana che non ricordo se “O’ sole mio” oppure “Volare”. Allora Giovanni rilancia chiedendo una canzone molto melodica e triste su Sarajevo che i musici eseguono perfettamente. La canzone è veramente bella, da pelle d’oca e io chiedo la canzone della Bubamara, tra battute di Giovanni che diceva che questa canzone non esisteva, la chiedo ai musici che non la conoscono o meglio confermano l’esistenza ma dicono che non la sanno suonare. Capirò più tardi il perché, la Bubamara è una canzone Rom, loro non lo erano (i musici). 

Finita la cena decidiamo di incamminarci a piedi verso la birreria, salutiamo Miguel che va a dormire perché domani dovrà guidare fino a Tuzla. Finalmente riusciamo ad entrare, peccato che sia vuota la Sarajeskava, ci siamo solo noi. Io mi sposto vicino a Luca e incominciamo a parlare. Mi stupisce il fatto che riesca a capirmi così bene. Ci raccontiamo della vita passata, di come ci sentiamo, ora. Io racconto di come in questo periodo della mia vita io mi senta così vuota e stanca di tutto. Lui mi racconta un po’ di cose di se stesso, della guerra in Bosnia, degli stupri etnici, che io fino a quel momento non avevo capito bene come fossero. Torniamo in albergo,  domani si andrà a Tuzla, prima però avremo un paio d’ore per fare shopping e poi andremo a visitare il tunnel durante il quale nel periodo dell’assedio la popolazione riusciva a ricevere aiuti.

 

Lunedì 20, Sarajevo–Tuzla

Mi sveglio abbastanza presto. Lascio Virginia un po’ a dormire ancora. Scendo a fare colazione e nel momento in cui passo davanti ad un cameriere che sta parlando con una persona, lui agitando le mani me ne tira una in faccia. Mi chiede subito scusa, e l’altro signore mi stringe, accarezzandomi la testa in segno di conforto. Non mi arrabbio, per niente, sono serena e felice. Ho trascorso due giorni meravigliosi con i miei compagni di viaggio, accetto le scuse, faccio un bel sorriso e proseguo andando a prendermi il thè con pane e marmellata. Via di corsa di nuovo con Luca a fare shopping, ci raggiunge Virginia, abbiamo già caricato il bus con i nostri bagagli perché non torneremo più all’hotel ma l’appuntamento con Miguel sarà vicino ad un distributore dove il bus non potrà sostare molto.

Con Luca arriviamo fino alla fiamma eterna per i caduti della prima guerra mondiale, ci fermiamo a comprare del pane in una pakara meravigliosa. Percorrendo  quella via principale noto in una piazza che alcuni uomini stanno giocando a scacchi. Li sento urlare e così mi avvicino per scattargli delle foto, poi via di corsa all’appuntamento per la partenza. Ci troviamo tutti ad un baracchino dove Giovanni confessa di aver preso una cassa di birra e non so quante bottiglie di rakija. Così ci scateniamo anche noi nell’acquisto. La signora fa affari d’oro, compriamo tutta la rakija, quella prodotta da lei in casa, non certo quella industriale, tanto che deve svuotare delle bottiglie di plastica di acqua o bibite per riempirle con la sua rakija perché le bottiglie da un litro e mezzo erano troppo impegnative da comprare. Saliamo sul bus carichi come mine e scopro piacevolmente di aver lanciato una moda con l’orologio da portare al collo. Ne sono felice.

Arriviamo al famoso tunnel, attaccato all’aeroporto. Certo girando per Sarajevo i segni della guerra si vedono eccome, e ad ogni angolo c’è qualcosa che ricorda quel periodo, case con ancora i segni di mitragliate, bossoli e quant’altro, edifici sventrati e bruciati ma arrivare al tunnel si respira proprio una bruttissima sensazione. Guardiamo un filmato che ci spiega come avevano fatto a scavarlo e di come funzionava, scene di vita quotidiana della gente di Sarajevo, costretta a correre per le vie della città per non farsi ammazzare dai cecchini serbi.  Diciamo che la visione è stata molto esaustiva. La domanda che ci si pone però è sempre la stessa. Chi controllava il tunnel? I serbi assolutamente non ne erano a conoscenza? E l’ ONU? Noi, certo noi che cosa abbiamo fatto passare attraverso quel tunnel? Li abbiamo effettivamente aiutati o abbiamo continuato a mandare cibo scaduto? Passavano anche armi? Il cibo che passava attraverso il tunnel veniva effettivamente distribuito a tutta la popolazione oppure c’era chi se ne approfittava con la borsa nera? Giovanni ci spiega che la città di Sarajevo doveva solo essere messa all’estremo delle forze, la gente non doveva morire, i serbi l’avrebbero potuta prendere in pochissimo tempo ma l’hanno tenuta in pugno per due anni lasciando le persone vivere con la paura di morire, che è la cosa peggiore, secondo me.

Dopo aver visto il Tunnel si parte verso Tuzla. Il paesaggio è meraviglioso, arriviamo al confine con la Serbia, confine delimitato dal fiume Drina. Qui ci fermiamo per un pit stop ma senza caffè. Miguel fa uno dei suoi show, ad un certo punto si mette a pulire il vetro del bus tra battute e applausi di tutti noi.

Ripartiamo in direzione Associazione Tuzlanka amica, dove incontriamo la direttrice Irfanka. Luca, Giovanni e Claudia la conoscono  molto bene. Ci accoglie anche un ragazzo di cui mi sfugge il nome e che farà da traduttore.  Irfanka è psichiatra e ci racconta del perché e come è nata l’associazione. All’inizio era solo quasi per i bambini orfani, ma poi l’attenzione si è spostata sul problema delle donne per poi spostarsi anche sul cercare di aiutare intere famiglie. A questo proposito ci dice che i quadretti e gli oggetti che sono esposti nella stanza sono in vendita per aiutare una famiglia di contadini a comprare una mucca.  Anche qui la nostra generosità si fa notare abbondantemente. 

Irfanka ci racconta di quello che è successo in quella zona, di come gli aiuti nel dopo guerra da parte dell’ ONU siano stati un proseguimento della sofferenza di donne e bambini.  Sostanzialmente di cosa non è stato fatto per aiutare queste popolazioni.  Rimango colpita quando racconta che la commissione europea ha mandato un team di psicologi (donne) a parlare con le donne bosniache che avevano subito lo stupro etnico. Di come sono state insensibili nel dire a queste povere donne, con tutto quello che avevano subito, di non deprimersi troppo, di non mangiare troppa cioccolata. Cioccolata?????  Ma dico, e questa è la professionalità che siamo riusciti a mandare a chi ha subito una violenza così inaudita? Non ho parole, sono scioccata dall’imbecillità o l’assoluto menefreghismo da parte di un organo che dovrebbe tutelare chi soffre. Luca spiega che il dramma delle donne bosniache non è stato solo l’aver subito quella violenza abominevole  ma di come poi siano state trattate dai loro familiari. Alcune sono state prese a calci e a pugni per abortire il figlio che avevano in grembo dovuto alla violenza subita, altre si sono suicidate, altre insieme al marito hanno deciso di tenere in famiglia quel figlio avuto dalla violenza e che dalla nascita fino alla morte avrebbe ricordato per sempre il passato. Moltissime si sono chiuse e si sono portate questo peso dentro di loro, magari incontrando ancora per strada, liberi come se nulla fosse, quegli assassini e belve che avevano commesso quelle barbarie.

Concludiamo la conversazione con un piccolo buffet, pita mignon (buonissime), caffè, dolcetti e bevande zuccherate. Usciamo tutti dall’associazione con il nostro acquisto sotto il braccio: i quadretti fatti dai ragazzi per aiutare la famiglia Topolov a comprare la mucca. Le chiacchiere proseguono e nel giardino dell’associazione si avvicina un cane,  allora Laura gli offre del pane e lo mangia, poi ci provo io senza alcun risultato. Ridendo e scherzando con Giovanni, ci prova lui e il cane incredibilmente accetta di mangiare ancora. Tra risate e battute  io mi sento come la piccola fiammiferaia (per scherzo, ovviamente).

Risaliamo sul bus per andare finalmente in hotel. E’ una via non troppo comoda per il bus ma molto vicino al centro di Tuzla, basta attraversare il ponte. Scarichiamo i bagagli e io sono ancora in camera con Virginia. Ci prepariamo e scendiamo per cena, che facciamo in hotel. Poi pivo d’obbligo da bere fuori. Facciamo un giro per il centro, fino alla moschea dove il Muezin chiama per l’ultima preghiera e così vediamo un po’ di persone, praticamente tutti uomini e ragazzi che entrano. Luca viene avvicinato da un signore anziano che gli racconta di come pregano, cosa fanno prima di entrare in moschea. Restiamo colpiti dalla semplicità e cordialità con cui spiega minuziosamente i gesti. E’ meraviglioso starlo ad ascoltare, nella sua lingua.

Mentre io, Virginia e Michela dopo qualche minuto ci fermiamo a parlare con dei ragazzi giovani che anche loro ci spiegano alcune cose della loro religione. Io li guardo attentamente, sono tutti dei bei ragazzi alti, robusti e con occhi chiari bellissimi. Rifletto sul fatto che da noi in Italia quando parliamo di mussulmani, ci viene in mente subito il marocchino di turno, magro, di carnagione scura, riccio con occhi neri. Qui invece la cosa è molto diversa perché le persone hanno i tratti somatici classici degli slavi, biondi, chiari di carnagione, alti e con occhi verdi/azzurri. A Virginia ne piace uno, così in simpatia.  Le strappa la promessa di rivedersi la sera dopo davanti alla moschea. Promessa accettata per metà perché la sera dopo non sappiamo cosa faremo. Ci sparpagliamo un po’, tanto è facile girare per Tuzla, io ed alcuni tra cui Luca, Giovanni, Claudia, Giovanna, Virginia, Bob e Pat ci fermiamo a bere una pivo. Anche qui le risate e le battute se ne fanno molte, l’altmosfera è serena e rilassata anche perché domani sarà una giornata pesante, si andrà a Srebrenica. Ci fermiamo ad una bancarella a comprare della musica balcanica. Laura e Virginia non sanno cosa scegliere e così arriva Giovanni consigliando  e acquistando lui stesso un cd di un rapper del luogo. Torniamo in albergo ridendo come matti.

Io e Virginia andiamo a nanna, io con la consapevolezza che il giorno dopo non sarebbe stato facile. Non dormo molto, sono nervosa e agitata, penso e ripenso agli stupri etnici e a come si sono sentite quelle povere donne.

 

Martedì 21, Tuzla–Srebrenica–Tuzla

Mi sveglio presto e mi siedo sola a fare colazione, poi si siede Luca e incominciamo a parlare, anche di quello che andremo a vedere. Siamo pronti, si parte per Srebrenica.

Percorendo la strada per Srebrenica, noto che i segni della guerra sono molto evidenti. Case nuovissime costruite accanto a quelle bruciate, segni indelebili di quegli anni terribili che non si cancelleranno mai.

Arriviamo a destinazione e facciamo il giro della città stando sul bus, passiamo accanto al famoso campo di basket, dove furono ammazzati dai serbi, molti bambini mentre stavano giocando.

Arriviamo al memoriale di Potočari dove sono seppelliti i mussulmani uccisi. All’interno c’è una piccola moschea aperta e fuori infinite stele bianche che si perdono a vista d’occhio, con scritti i nomi delle persone massacrate da belve feroci. Questo campo si allarga sempre di più ogni anno che passa perché ogni volta che lo staff che lavora sulla ricomposizione delle ossa trovate nelle fosse comuni, riesce a mettere insieme un corpo, o quello che ne rimane, finalmente la famiglia può avere una tomba su cui piangere la persona cara. All’interno del memoriale c’è anche un piccolo museo di fotografie. Ce ne sono di molto crude e io resto colpita.  Arriva Hatidža Mehmedović, testimone oculare dell’eccidio di Srebrenica, dopo una piccola introduzione fatta da un ragazzo che 20 anni prima, ancora molto piccolo, era scampato al massacro.

Hatidža ci parla di quello che le è successo durante quel periodo, quando la popolazione si è fatta una marcia di 5 km sotto un sole cocente da Srebrenica a Potočari per chiedere aiuto ai caschi blu dell’ONU, visto che avevano capito che cosa stavano facendo i serbi. A lei hanno ammazzato 3 figli e il marito, senza contare tutti gli altri parenti, circa una ventina. Hatidža parla di quei momenti ma quando arriva a dirci della morte dei suoi familiari le scendono delle lacrime dal viso. Mi sconvolge questa donna, non capisco le parole che dice, non conosco la sua lingua, ma basta guardarla negli occhi per vederci dentro tutto il suo dolore. Avrebbe dovuto morire anche lei, per mano di un aguzzino paramilitare serbo che l’aveva scelta per puro divertimento, quando un militare sempre serbo le ha cambiato il destino mandandola su di uno dei bus che l’hanno portata in un campo profughi. Lei si è salvata e a distanza di tempo ha rincontrato il militare che le ha salvato la vita, lo ha ringraziato ma avrebbe preferito avere lo stesso destino del resto della sua famiglia perché non avendoli più in vita lei è morta per sempre con loro. E' vero, Hatidža è viva, ma è come se fosse una morta che cammina.  Ho capito che queste persone vogliono due cose da noi occidentali, e cioè giustizia, che forse non avranno mai, e di non essere dimenticati.

Dopo aver visitato il memoriale ci dirigiamo all’interno della Stanza della Memoria, il luogo dove sono state trattenute le 5000 persone che i militari dell’ONU hanno fatto entrare per così dire “salvaguardare la loro incolumità” nei confronti dei serbi, mentre fuori altrettante persone chiedevano protezione. Hanno sostato  pochissimo dentro a quella fabbrica dismessa, mentre fuori i maschi adulti e ragazzi di una certa età decidevano di prendere la via dei boschi perché avevano capito che non avrebbero avuto scampo restando davanti alla sede del campound dell’ONU, confidando che alle donne avrebbero dato protezione.

Chi fuggì nei boschi fu preso e ammazzato sul posto dai serbi in maniera cruenta, la restante popolazione fu deportata in campi profughi e scelta per i divertimenti soliti dei paramilitari e le 5000 persone sono state date in pasto ai serbi dai militari olandesi del contingente ONU in cambio di un lasciapassare per andare via dal territorio.

Entrando in quella fabbrica, c’è un filmato da vedere e ci sono esposti gli oggetti appartenuti alla povera popolazione bosniaca. L’aria respirata in quel posto è da campo di concentramento, appena entrata mi sono chiesta che cosa pensarono i bosniaci rinchiusi lì dentro.  Vedevo le violenze subite, perché anche i militari ONU hanno approfittato della situazione, trattando la gente come se fossero bestie e non esseri umani, famose sono le scritte e i disegni volgari lasciati nei locali dei militari ONU contro le donne bosniache. Resto scioccata, pietrificata, e mi rendo conto che anche noi siamo responsabili di tutto questo, perché abbiamo lasciato che il nostro governo non facesse nulla per questa gente, io mi sento questa colpa addosso. Ognuno di noi è uscito in silenzio e da solo, ognuno di noi aveva da pensare. Uscendo da quell’orribile posto mi scendono lacrime amare, di rabbia per non aver fatto nulla perché ora ricostruire quello che si è spezzato in quegli anni non basteranno intere generazioni. E se penso a Kanita, al suo NOI invece che mussulmani, cattolici, ortodossi o ebrei, queste lacrime non riesco proprio a trattenerle. Mi si avvicina Luca e mi chiede come sto, se ne voglio parlare, ma io sono come paralizzata e sono troppo arrabbiata per dire qualcosa, mi viene solo da dire che vorrei prendere i nostri governanti compresi quelli dell’epoca e appiccicargli il muso contro il muro della fabbrica dismessa, così forse capirebbero il disastro che hanno combinato. Luca invece suggerisce la visita ai frigoriferi, dove vengono raccolte le ossa ritrovate nelle fosse comuni in attesa di ritrovarle tutte e potere dare uno scheletro intero alla famiglia da poter seppellire.

A pranzo ci attendono le donne della Cooperativa delle Donne di Srebrenica, sono meravigliose, fanno un grosso lavoro per aiutare le donne con lavori e altro. Il pranzo è buonissimo ma io ho lo stomaco chiuso per quello visto precedentemente, assaggio pochissimo cibo perché sta male far vedere che non mangi nulla quasi non ti piacesse, in realtà è tutto buonissimo come sempre.

Salutiamo queste donne meravigliose e ci dirigiamo alla Cooperativa Insieme di Bratunac, dove sono specializzati nella produzione di marmellate e succhi di frutta ai frutti di bosco. E’ la prima cooperativa dove ci lavorano donne serbe-bosniache e bosniache mussulmane della Republika Srpska di Bosnia.

Siamo stupiti ma molto onorati del nome “Insieme”, nome italiano perché vista la difficoltà a dare un nome alla cooperativa, hanno scelto la lingua che entrambi le popolazioni adorano, e cioè l’italiano. Nonostante tutto siamo ancora ben visti in questi posti.

Ascoltiamo attentamente il direttore che ci spiega di come viene svolto il lavoro e di come questa sia in concreto un aiuto efficace alla collaborazione e alla ricostruzione. Nel frattempo ci viene preparato un piccolo buffet di assaggio di queste prelibatezze, e naturalmente anche qui la nostra generosità si fa sentire parecchio.  Svuotiamo il magazzino della cooperativa acquistando marmellate e succhi di frutta in grandissima quantità. La più grande speranza è ora di vedere questi prodotti nei nostri supermercati, perché primo sono ottimi e poi fanno bene al cuore.

Rientrando a Tuzla, c’è la possibilità di visitare un lago, ma io preferisco andare in albergo per prepararmi con calma alla cena della sera che sarà in un ristorante in centro. Arrivati al ristorante occupiamo tutta la sala al primo piano. La solita baraonda per ordinare con tanto di show da parte di Miguel, che è diventato parte fondamentale del viaggio. Indossa un vestito tradizionale appeso al muro ma la cosa peggiore è che convince Claudia a fare lo stesso. Ridiamo tutti come matti, tra la fame che aumenta. Arriva il cibo, buonissimo come sempre. Raccogliamo i soldi per pagare il ristorante ma quando Claudia fa i conti con il proprietario del posto scopre che avevamo pensato che la cena fosse in euro invece era in marchi convertibili! Praticamente invece che spendere 10 euro ne abbiamo spesi 5!

Prima di tornare in hotel, ultima tappa per la pivo poi tutti a nanna, domani si parte presto e il rientro sarà molto lungo.

 

Mercoledì 22, Tuzla–Italia

Ci svegliamo presto, carichiamo subito i bagagli sul bus e via, si parte per tornare a casa. Le discussioni su come fare a tornare a Milano si sprecano, però c’è la possibilità di fermarsi a Mestre per caricare l’altro autita del bus perché Miguel non può guidare per più di tot. di ore, quindi felicissima di prendere il treno da Mestre se non fosse che durante il tragitto, il nostro bus si guasta. Ha un problema con le marce, siamo in ottava e non è possibile farlo ripartire oppure fare le salite perché si spegne. Miguel con la sua solita verve ci dice al microfono che abbiamo un guasto ma che cercherà di proseguire il più possibile verso l’Italia. In prossimità di Lubiana, costretto da Giovanni, ci fermiamo in un autogrill. Almeno possiamo mangiare e avere il bagno a disposizione. Nel frattempo Miguel si era già sentito con l’assistenza del bus ed era solo una questione di attendere il meccanico per poi ripartire, ma i tempi si sono allungati e così hanno pensato di mandarci un autobus sostitutivo che ci portasse dentro i confini italiani per poi farci venire a prendere da un altro autobus che nel frattempo si era mosso da Pesaro per venirci incontro.

Sono stati momenti bellissimi anche quelli dell’attesa del meccanico, dopo aver mangiato con un Miguel che mostrava la foto di un santino che usciva dal taschino della camicia, ci stendiamo tutti sul prato dell’autogrill di Lubiana, chi a prendere il sole e  chi a provare posizioni yoga, come la sottoscritta e Virginia. Per un momento siamo state le più fotografate. All’arrivo del meccanico, tra la preoccupazione di Giovanni, l’arrabbiatura di Luca e l’incazzatura di Miguel, perché il meccanico era arrivato senza pezzi di ricambio, ci si consola aspettando il bus sostitutivo. Dopo un po’ arriva, e quindi riponiamo i nostri bagagli nel nuovo bus e partiamo in direzione Italia. Superiamo il confine con questo autobus surgelatore e ormai ognuno è perso nei propri pensieri, chi legge, chi ascolta la musica. Arriviamo in questo autogrill, scarichiamo i bagagli, salutiamo l’autista e ci ritroviamo a sembrare un gruppo di profughi in attesa del prossimo bus.

Incomincia il via vai per comprare caramelline, panini, gelati e via dicendo, tanto che il cassiere ad un certo punto chiede a Marilena se aveva i soldi per pagare un pacchetto di caramelle! Esilarante, lei senza dire nulla, estrae il bancomat e paga la cifra irrisoria con quello!

Per sdrammatizzare la nostra situazione e festeggiare effettivamente la fine del viaggio, Loredana apre la sua bottiglia di un litro e mezzo di rakija e brindiamo tutti per l’ultima volta.

Arriva il nostro autobus, carichiamo i bagagli, e qui subentra una sorta di malinconia che mi prende un nodo alla gola. Capisco che è veramente finito il viaggio, che questo autista non è il nostro Miguel e nel cercare di trovare una soluzione per tornare a Milano, visto che oramai si era fatto molto tardi, rispondo in maniera seccata al povero Enrico. La situazione alla fine la risolviamo in questa maniera: unica sosta a Bologna per non incasinare gli altri che dovevano tornare ad Ancona o Firenze. Virginia si fa venire a prendere da un suo amico, Enrico lo portano a casa a Mantova, e io dormirò a casa di Silvia, per poi ripartire la mattina dopo, direzione ufficio. Così facciamo. Ci viene a prendere il marito di Silvia, Andrea, gentilissimo accompagnamo la sua amica a Bologna e poi andiamo a casa. Silvia e Andrea abitano in una casa bellissima, la vecchia abitazione del guardiano del fiume. E’ immersa nel verde e per arrivarci bisogna attraversare un bosco! Non ci posso credere! Andrea ha già preso il biglietto del treno e preparato la camera di una delle loro figlie.

 

Giovedì 23, Milano

Mi alzo, Silvia prepara la colazione e poi mi accompagna alla stazione. Alle 8 prendo il treno e alle 11 sono in ufficio.

Dire che è stato un viaggio meraviglioso è riduttivo. E’ stato di più, è andato oltre.

Ora spero di tornarci presto, anche perché è proprio vero che Sarajevo ti rapisce il cuore e poi abbiamo un compito importante, fare in modo di raccontare a più persone possibili questa vicenda, accaduta vicinissimo a noi di cui ancora troppa gente non è al corrente o sa cose distorte. E’ un nostro dovere, e poi i bosniaci ci chiedono una cosa molto importante che è quella di non dimenticarli, altrimenti tutte quelle persone moriranno una seconda volta, e noi non lo vogliamo.