Esprimendo
la “speranza che tutti i popoli della Bosnia Erzegovina, come pure quelli degli
altri Paesi della ex Jugoslavia, continueranno nel processo di riconciliazione
e nel facilitare la coesistenza basata sull’uguaglianza delle nazioni e sul
pieno rispetto delle libertà e dei diritti umani e delle minoranze, per far sì
che i crimini commessi non si ripetano mai più in futuro”, ieri, 11 luglio
2013, il Parlamento della Serbia ha reso omaggio alle vittime del genocidio di
Srebrenica esprimendo, nel diciottesimo anniversario di quella spaventosa tragedia,
partecipazione al dolore delle famiglie, ma senza dimenticare le vittime serbe
perite nelle guerre che negli anni Novanta – dalla Slovenia al Kosovo – hanno insanguinato
l’area balcanica e visto, in un modo o nell’altro, Belgrado sempre al centro
dell’attenzione.
Parole
utili a stemperare le tensioni, sempre presenti nell’area, e ad addolcire i
rapporti con l’Unione europea, missione principale della nuova maggioranza che
sostiene il presidente serbo Nikolic.
Alle
parole, tuttavia, non hanno fatto seguito i fatti. Alla commemorazione di ieri
del genocidio di Srebrenica, e alla tumulazione di altre 409 vittime sulle
oltre diecimila totali, non hanno infatti partecipato esponenti serbi o
serbo-bosniaci, se si escluda un annoiato ministro di secondo piano mandato da
Banja Luka, capitale amministrativa della Repubblica serba di Bosnia (Rs).
Assente (completamente ingiustificato) il presidente serbo-bosniaco della
presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina; assenti il presidente e il primo
ministro della Rs (altrettanto ingiustificati, vista la esigua distanza chilometrica
da percorrere); assente il presidente del parlamento della Rs; assenti
governanti e parlamentari della Serbia. Tutti ingiustificati.
La via
del dialogo deve sempre restare aperta. Ma ogni tanto – come aveva fatto più
volte l’ex presidente serbo Boris Tadic – metterci la faccia può anche fare la
differenza. In positivo. E di questo, da due decenni a oggi, i Balcani hanno un
gran bisogno.