venerdì 8 febbraio 2013

Ragazzi di Bosnia, un articolo per "Guerre e Pace"

Mi fa piacere pubblicare quest'articolo scritto per il nuovo numero della rivista "Guerre e Pace". Spero avrete il piacere di leggerlo.

“Nelle vicinanze di Tuzla ci sono ancora dieci campi collettivi con un gran numero di profughi. Quello che riscontriamo spesso, ed è ovvio, è che alla fine i bambini tendono a perdersi in questa massa di persone e a perdere la loro identità. Ci sono molte conseguenze. Una delle più visibili è che ci sono tanti bambini che non vanno a scuola per problemi sia finanziari sia emotivi dei loro genitori. Ma sono le bambine a subire di più gli effetti di questo fenomeno, e si tratta di una grande tragedia”.

A volte mi capita di rileggere queste parole e di restare senza fiato. L’anno in cui rimanevano impresse sul mio registratore ancora a cassette era il 2003. Il luogo era Tuzla, per “campi collettivi” s’intendeva i campi profughi come ribattezzati dall’amministrazione cantonale e lei era Irfanka Pašagić, psichiatra originaria di Srebrenica, presidente dell’associazione Tuzlanska Amica, attiva dal 1992, insieme a molti (piccoli e agguerriti) partner italiani, per aiutare le vittime del conflitto bosniaco del 1992-1995, a cominciare dai bambini e dai giovani.

Sono passati dieci anni da quell’intervista, che poi finì nel mio libro dal titolo “Srebrenica. I giorni della vergogna”, e dopo tanti libri sulla Bosnia Erzegovina e un numero imprecisato e imprecisabile di viaggi in quel meraviglioso, duro e devastato Paese, chiudendo le bozze del mio ultimo lavoro, “Mister sei miliardi. I giovani, la scuola, il lavoro, la salute, il futuro della Bosnia Erzegovina” (2012), mi sono ritrovato, drammaticamente, muso a muso con un’infanzia, un’adolescenza e una gioventù bosniache ancora sprofondate irrimediabilmente nei miasmi appiccicosi e putridi di un dopoguerra interminabile e ingiusto. Ancora. Quasi vent’anni dopo la fine del conflitto bosniaco – centomila e più morti (secondo le stime più ottimistiche), il genocidio di Srebrenica, l’urbicidio di città come Sarajevo, lo stupro etnico usato in qualità di arma di devastazione di massa, l’utilizzo di uranio impoverito e di gas, la pulizia etnica come strumento di cancellazione radicale delle diversità, il ritorno dei campi di concentramento e di quelli di sterminio in Europa mezzo secolo dopo l’ingresso dell’Armata Rossa ad Auschwitz… – i giovani bosniaci vivono in un Paese che non ha potuto rialzare la testa, in cui il problema principale per molti è riuscire ad avere un paio di scarpe ai piedi e qualcosa ogni giorno nello stomaco e in cui sempre più vanno approfondendosi le divaricazioni create a tavolino dai nazionalismi delle tre parti, quello serbo-bosniaco e quello croato-bosniaco per cominciare, a cui si è aggiunto, poco dopo, a guerra già in corso, quello musulmano-bosniaco.

Nazionalismo nella vita politica bosniaco-erzegovese può avere un solo sinonimo; a voler essere buoni e ottimisti, al massimo due. Il primo, quello più azzeccato e duro, è neofascismo. Il secondo, meno definitivo, è populismo. Male, quest’ultimo, di cui da anni ormai l’Europa intera è infetta. E uno degli untori, anche in Bosnia, si chiama Italia. Qui i più spregiudicati tra i nostri politici e politicanti hanno esportato grazie alla tv e a internet i loro modi e le loro idee, così facili da far attecchire in un contesto di disastro sociale, dove inevitabilmente su tutto prevale il “si salvi chi può”.

Il nazionalismo serbo-bosniaco e quello croato-bosniaco (di cui si parla sempre troppo poco, quasi a voler bonariamente – o utilitaristicamente – rimuovere le responsabilità della cattolicissima Zagabria e dei cattolicissimi militari croati, a cominciare dal defunto presidente Franjo Tuđman, nel conflitto bosniaco-erzegovese) hanno creato a tavolino il mito feroce e falso della guerra etnica e religiosa provocata dall’impossibilità di vivere insieme per le tre cosiddette – erroneamente, perché è più corretto parlare di “gruppi nazionali” – “etnie” maggioritarie (musulmani, circa il 42%; serbi, circa il 38%; cattolici, circa il 14%) che compongono il mosaico “jugoslavo” della Bosnia Erzegovina, non a caso da decenni definita proprio “piccola Jugoslavia”. Le bugie della propaganda delle due parti di cui sopra sono diventate presto preda anche del populismo musulmano-bosniaco, che acriticamente, e per lucrosi fini di parte, ha preferito fare sue le bugie etniche piuttosto che provare a urlare in faccia al mondo la verità, ovverosia che musulmani, serbi e croati appartengono assolutamente e inscindibilmente – oltre che inconfutabilmente – allo stesso ceppo etnico e, nonostante oggi i neofascisti e i populisti delle tre parti asseriscano il contrario – parlano tutti la stessa identica lingua, il serbo-croato, o serbo-croato-bosniaco, o jugoslavo che dir si voglia. Stesso ceppo etnico e stesso ceppo linguistico. Immense contaminazioni culturali reciproche, dalla musica alla tavola. Con diverse religioni e una maggioranza ancora piuttosto decisa di laici, oltre che con una netta prevalenza di matrimoni misti rispetto a quelli “puri”. Punto e basta.

Quest’aberrazione partorita da eminenti (e tragicamente ben noti) mistificatori quali Slobodan Milošević, Biljana Plavsić, Radovan Karadžić, Franjo Tuđman e le rispettive cricche, abbeveratisi alle teorie razziste dell’Accademia delle Scienze di Belgrado e di “eminenti” psichiatri quali il troppo presto rimosso Jovan Rašković, a causa della guerra e dell’acriticità (e della connivenza) di politici e media internazionali, è oggi ormai diventata “patrimonio” comune. Un patrimonio sbagliato e bugiardo. Ma se per noi la menzogna è particolarmente propagandata attraverso i nostri mezzi di diffusione di massa ignoranti e i nostri politici, non meno ignoranti (per essere buoni), in Bosnia mass media (in buona parte in mano a miliardari arricchitisi con la guerra) e cariche elettive (dominate dai proprietari di buona parte dei mezzi di comunicazione di massa) sono solo la punta di un iceberg della menzogna che ha la propria base in Parlamento e il punto d’inizio nelle scuole.

La bugia propagandistica nasce proprio là, nei banchi di scuola degli istituti “etnicamente segregati” dell’Erzegovina come in quelli “etnicamente puliti”, col sangue, della Republika Srpska di Bosnia. Nasce, la menzogna creatrice d’odio, nei libri di testo – storia, letteratura, grammatica, religione, persino geografia – di scuole in cui oramai per legge s’insegnano le “materie di rilievo nazionale”, ovvero quelle materie utili al nazionalismo di parte, al potere in quella zona del Paese, per rimarcare le differenze e trasformarle in pericoli e in nemici, invece che in chance per essere tutti migliori. Ma la segregazione in oltre cinquanta scuole erzegovesi è anche apartheid fisico, vero, isolamento di ragazzi e insegnanti d’un gruppo nazionale da una parte, gli altri dall’altra. Le scuole diventano allora luoghi in cui, in classi diverse, s’insegnano materie identiche ma di segno opposto, con conseguenze immaginabili: un corto circuito sociale che alimenta la differenza e, laddove possibile, l’odio, anziché porre le basi per una rinnovata e pacifica convivenza.

Le scuole sono il covo, il nido, l’incubatrice dei nazionalisti di domani. Che vanno formati, plasmati, foraggiati. È facile farlo poiché le scuole bosniache non sono libere, in quanto alla fine di ogni anno scolastico il personale docente è soggetto a una votazione che vale la riconferma, quindi la certezza dello stipendio oppure, in alternativa, la fame, in un Paese in cui il costo della vita è quasi “occidentale”, la disoccupazione sfiora il 50 per cento della popolazione attiva e lo stipendio medio, per i fortunati che lavorano, è di circa 400 euro al mese. Il voto che vale la riconferma a scuola o il ludibrio del licenziamento e la conseguente miseria è espresso dal dirigente scolastico, e quest’ultimo è nominato dal ministro competente per l’Educazione. Il corto circuito è chiaro, evidente, persino banale nella sua folle linearità e nella sua scoperta pericolosità.

All’università, se possibile, le cose vanno persino peggio. Ormai i corsi universitari – strutturati in un triennio di base e in un biennio di specializzazione, sulla base della nota riforma di Bologna, entrata in vigore anche in Bosnia – hanno costi identici o addirittura superiori a quelli italiani. Con la differenza che a Sarajevo lo stipendio è pari alla media nazionale, altrove non supera i 200 euro. Iscrivere all’università un ragazzo vuol dire spendere, ogni anno, una base di 1.400-1.600 euro, quattro stipendi su dodici nella Capitale, sette-otto su dodici altrove. Esclusi i costi per i libri, i materiali di consumo, il vitto, l’alloggio… Chi ha alle spalle una famiglia che, con mille sacrifici, se lo può permettere, cerca di prolungare il suo percorso universitario per acquisire la più alta specializzazione possibile e provare a entrare nel mondo del lavoro con la più alta preparazione possibile: master, dottorati, corsi di specializzazione sono costosissimi e d’alto livello accademico. Ma presentano un immenso limite, come del resto l’intera università uscita dallo sfacelo della riforma di Bologna: una lontananza abissale con le competenze richieste dal mercato del lavoro. Le università, dunque, drenano dalle famiglie risorse immense ma immettono nel mondo del lavoro ragazzi teoricamente preparati ma in pratica inutili per le esigenze delle aziende, poiché le nozioni impartite non sono sufficienti e mirate, nella maggior parte dei casi, a chi deve fare i conti ogni giorno col mercato e con la crisi.

In ogni caso, un giovane laureato ha bassissime chance di trovare un lavoro in patria. È la tessera del partito nazionalista, nella maggior parte dei casi, soprattutto sotto elezioni, a poter fare la differenza. Per il resto, è disperazione. Ed emigrazione. Ogni anno sono decine e decine di migliaia di ragazzi che lasciano la Bosnia Erzegovina per cercare fortuna all’estero, per provare a dare una forma e una materialità al loro sogno di benessere e di stabilità. Quasi nessuno farà ritorno in patria. Anche questo, in un Paese devastato dalla crisi economica e in cui si punta a rendere cieco il popolo di fronte alla corruzione della politica, è un toccasana per i nazionalisti e i corrotti al potere: da fuori è più facile prendere atto delle aberrazioni che avvengono in patria e potrebbe essere più semplice, col proprio voto, provare a cambiare qualcosa. Ma chi vive all’estero non vota o, se lo fa, esprime la propria preferenza per lettera, sistema che rappresenta l’esatto opposto della certezza che ogni singolo voto espresso sarà conteggiato e andrà ad arricchire i suffragi di un partito piuttosto che di un altro. In più, è evidente che non solo la partenza dei “cervelli” impoverisce la capacità e la forza di reazione sociale e politica del Paese, favorendo i politici corrotti di oggi, in parte figli e figliastri di quelli che hanno voluto e condotto la guerra ieri, ma a questo impoverimento di fatto fa però riscontro un incremento delle rimesse degli emigrati, che appena possono spediscono soldi ai cari rimasti a casa. Vent’anni dopo l’inizio della guerra, e oltre tre lustri dopo la firma degli accordi di pace di Dayton, la Bosnia ancora vive di rimesse, di cooperazione internazionale e di carità. Il grosso delle attività produttive e delle risorse naturali nazionali è stato alienato per quattro soldi ad appannaggio di grandi gruppi locali o internazionali legati ai partiti nazionalisti di una delle tre grandi parti e la maggior parte della ricchezza prodotta in patria emigra all’estero, sotto forma di debiti da pagare oppure in quanto remunerazione di capitali di proprietà straniere. Alla Bosnia non resta nulla, ormai quasi più neanche le lacrime per piangere.

La Bosnia Erzegovina non è dunque un Paese in cui sono i meritevoli ad andare avanti, ma in cui la selezione avviene semplicemente in base al censo e alle amicizie: studia e si costruisce un futuro chi ha i soldi, gli altri possono morire d’inedia. Lavora solo chi ha una tessera di partito in tasca o una lettera di raccomandazione in mano; agli altri non resta che scegliere tra fare la fame, accontentarsi di lavoretti in nero mal pagati, emigrare o entrare nel giro della piccola, media o grande criminalità, che fa affari d’oro poiché pressoché impunita essendo vicina o addirittura endogena al potere.

Sono, questi, gli effetti evidenti delle politiche neoliberiste innestate violentemente su un corpo sociale, economico e politico uscito devastato da una guerra che ha messo fine a mezzo secolo di socialismo più o meno reale e a oltre un decennio – quello disgraziato degli anni Ottanta – di gravissima crisi economica. Responsabile di questo è anche l’Europa, lo siamo anche noi italiani. Noi, anzi, lo siamo una volta più degli altri. Perché, come gli altri, non abbiamo fatto nulla per prevenire la guerra, nulla per fermarla e poi nulla per favorire una pace duratura; sempre come gli altri, sfruttiamo questo Paese con le nostre vergognose fabbriche su ruote, che pagano 150 euro al mese a gente che d’inverno lavora in capannoni persino privi di riscaldamento. Più degli altri, tuttavia, abbiamo la vicinanza geografica e le dinamiche sociali e politiche molto simili alla Bosnia. Questo dovrebbe far scattare un grande allarme nelle teste e nei cuori di tutti noi. Per il futuro della scuola, dei nostri giovani, della nostra sanità, del nostro Paese. Perché Bosnia e Italia hanno dinamiche interne e limiti incredibilmente simili. A volte, però, è difficile fare paragoni e approfondire se si ha la testa impegnata in altro: magari in questioni scottanti come chi vincerà San Remo o il nostro reality show preferito. Oppure su chi non abbia voluto, due decenni fa, approvare una legge sul conflitto d’interessi che avrebbe cambiato, forse decisamente in meglio, il nostro futuro allora, il nostro presente oggi; o magari su quel modello di telefonino che, incredibile, forse tra le mille funzioni riesce anche a telefonare…