lunedì 31 dicembre 2012

L'ultimo giorno dell'anno è il momento giusto per regalare a tutti voi l'ultimo capitolo del mio ultimo libro, "Mister sei miliardi. I giovani, la scuola, il lavoro, il futuro della Bosnia Erzegovina". Si tratta del ventitreesimo capitolo. Se vi piace, vuol dire che vi piacerà tutto il libro, perché il taglio e lo stile sono questi. Nel libro parlano tutti, senza differenza di nazionalità e religione. Si tratta di un libro critico e costruttivo, a tratti duro, scritto con lo stile che negli anni mi sono ritagliato addosso e che ora so finalmente essere mio. Buona fine di 2012 e buon inizio di 2013. Speriamo di rivederci tutti in un mondo (molto) migliore!

La potenza del sogno


Sotto il casco di capelli ribelli due lenti tonde, cerchiate di metallo blu, trattengono a fatica gli spilli sottili di occhi penetranti e ironici.
Wim Wenders, il grande, indica alla sua sinistra un ragazzo sorridente, pupille dilatate dall’emozione incorniciate nell’ovale di una testa spettinata e barbuta. Ado Hasanović posa seduto accanto al mito. Come toccare il sogno e capire, d’improvviso, che è materiale, carne e sangue, sensi e nervi, genio e passione. Wenders è lì e quel centimetro che li separa forse finalmente li unisce, magari in un passaggio di consegne.
Il tempo può essere gentiluomo. Tra qualche anno scopriremo, sapremo. Intanto vale la pena sognare, che non è mai sbagliato e non può far male. Non deve far male.
A volte, quando mi sento stanco e avverto forte e opprimente il desiderio di cambiare qualcosa nella vita, guardo la foto di Ado e Wenders, mi ricarico di quel sorriso e capisco, una volta di più, che il sogno resta tale solo se non facciamo abbastanza per donargli con i nostri sforzi materialità. I desideri non si avverano se non sudando. A volte soffrendo.
Con Ado ci si sente spesso via e-mail, a volte si riesce a scambiare quattro chiacchiere di persona, se sono a Sarajevo o se gli capita di venire in Italia. Potrei essere per lui un fratello molto maggiore ma è nata un’amicizia basata sulla stima reciproca e rafforzata in me dalla consapevolezza che per quanto possa essere stato difficile per me arrivare fin qui, per Ado e per i ragazzi e le ragazze come lui è infinitamente tutto più irto. E le chance, se si presentano, lo fanno con un’esiguità tale da farle apparire una sorta di tremolante miraggio.
Raccontare la storia di Ado, secondo me, vuol dire tirare le fila di un’esistenza che è destinata a diventare qualcosa d’importante. Perché chi, come lui, è arrivato fin qui partendo dall’abisso, non può non continuare il viaggio che lo porterà – glielo auguro e ne sono certo – fino a Wim Wenders e oltre. Ma vuol dire anche – perché voglio che questo finale sia pieno di sole e di speranza – che un Paese può avere uno come anche un milione di Ado, e che quindi la via verso la realizzazione e un futuro migliore non è e non può essere preclusa a nessuno. Però bisogna volersi dar da fare, questo sì. E non scoraggiarsi, ma partire dalle piccole cose. Come quando, tempo fa, ci siamo ritrovati a bere una cosa in centro, a Sarajevo, e lui mi ha snocciolato, ridendo di gusto, i numeri che appesantiscono la sua vita ed espongono ai pericoli dell’oblio i suoi sogni. I numeri dei costi e dei debiti.
«Si fa molto presto, sai? – ha raccontato divertito sotto la barba ispida – A Sarajevo per vivere hai bisogno per lo meno di trecentocinquanta marchi convertibili al mese per un alloggio, elettricità, acqua, internet e qualche telefonata… – si ferma un istante – Intendo a persona, eh… Puoi trovare qualcosa a meno, ma lontano dal centro. Però poi hai i costi dei mezzi pubblici. Per il cibo metti in conto trecento marchi al mese, poi c’è chi ce la fa con meno e chi invece mangia di più. Io ce la faccio di solito con meno… Fa seicentocinquanta marchi al mese, poco più di trecento euro, a cui aggiungere circa trecento marchi l’anno di libri per studiare. Va bene, dai, fammi essere sincero. Non di libri, di fotocopie di libri, perché gli originali non se li può permettere quasi nessuno. Poi c’è il costo dell’università, che ammonta a seimilacinquecento euro l’anno. Una mazzata. E se pensi che non riesco a trovare un lavoretto decente da mesi per via della crisi economica…».
Si parla davanti a una pivo, una birra, e guardiamo una gioventù bella, bellissima, che fa lo struscio. Su e giù. La maggior parte non si ferma. E come farebbe? Chi glieli dà i soldi per pagarsi da bere? Allora si fa lo struscio e si guardano le vetrine. E ci si fa guardare. Perché no? Gli uomini impettiti come galli, le donne belle e fragranti di pulito e profumi che paiono pregiati ma che forse loro stesse hanno fatto in casa. Però in tasca non c’è un centesimo. Almeno per gli onesti.
Ado ha accettato di raccontarmi la sua storia, che conosco per sommi capi. Ma ho bisogno che m’aiuti a mettere insieme i pezzi. E a trasformare il suo racconto nel capitolo finale di un libro che – perdonatemi – so non essere particolarmente ottimista ma, ve lo assicuro, trasuda vita e speranza da ogni rigo, da ogni poro di questa carta che ad aprire il volume per la prima volta ha quasi emesso un gemito, un piccolo gemito di piacere.
Ado allora si pulisce i baffi dalla schiuma della sua pivo, si rimbocca le maniche e comincia a raccontare, a srotolare la sua breve vita davvero un po’ da film.
«Sono nato a Srebrenica nel 1987 – racconta – Ho lasciato la città a sei anni, nel 1993, uscendo con l’ultimo convoglio delle Nazioni Unite, quello che andò via dopo che Philippe Morillon, assediato dalle nostre donne a Srebrenica, ottenne la creazione da parte del Palazzo di Vetro di New York di una zona protetta, una safe area, come la chiamarono allora. Sono rimasto a Tuzla fino alla fine della guerra e degli studi. Sono tornato a Srebrenica per la prima volta nel 2006, dopo tredici anni. Ho sempre avuto la passione per il cinema, la ripresa, l’arte visiva. Ho cominciato con una piccola telecamera e con filmati artigianali, poi un po’ alla volta sono riuscito a crescere, a migliorare, a comprare nuova e migliore attrezzatura. A un certo punto della mia vita ho deciso di crescere per poter comunicare al meglio il mondo che ho dentro. Mi sono iscritto alla miglior scuola di regia di Sarajevo, spinto da una signora austriaca che mi ha pagato la retta del primo anno di corso…».
Fermo Ado, non ci siamo. Non puoi pensare di sfuggirmi così platealmente. Riarrotola il nastro. Rewind. Stop. Ricominciamo da capo. Anche se fa male ricordare, raccontare non può che far bene. Ma dobbiamo farlo lentamente, spiegare con dolcezza e comprensibilità come abbiamo fatto ad arrivare fin qui.
Riproviamo, allora.
«Ho vissuto con la mia famiglia nel villaggio di Glogova, vicino a Bratunac, fino all’età di cinque anni. Era il 1992. Ricordo che durante il giorno dovevamo nasconderci per tutto il tempo in montagna perché i cetnici venivano a controllare le case e portavano via i civili. Rammento che un giorno una cannonata piovuta dalla montagna fece saltare in aria il supermercato proprio accanto a casa nostra. La strada fu inondata di caramelle, cioccolato e altri dolciumi che parevano piovere dal cielo. Purtroppo non potemmo prenderne neppure uno. Dovemmo nasconderci nel bosco e assistere allo spettacolo dei serbi che si riempivano le tasche di quel ben di dio e, contemporaneamente, distruggevano tutto quel che capitava loro a tiro».
Perfetto. Il film ora fluisce bene. Possiamo continuare a far girare la pellicola. Andiamo avanti, con ottimismo.
«A Glogova resistemmo fino al 9 maggio 1992. Poi c’incamminammo nel fitto della foresta e riuscimmo ad arrivare a Srebrenica. Per i miei genitori fu veramente difficile: avevano tre figli piccoli a cui badare: oltre a me, la mia sorellina più grande e nostro fratello più piccolo. Non intraprendemmo il cammino da soli. Con noi c’erano altri nostri parenti e parecchi vicini di casa. Non avevamo scelta: dovevamo fuggire per salvarci la vita. La marcia durò parecchi giorni. Non avevamo nulla da mangiare e di notte dormire nella foresta, al freddo, era durissimo. Ero piccolo e non ricordo quanto tempo impiegammo per arrivare a Srebrenica, ma rammento benissimo che fu terribilmente faticoso. Durante la marcia ci fermammo per qualche giorno nel villaggio di Klanac, sopra Srebrenica. Giunti in città fummo tutti ospitati a casa di un nostro cugino, il miglior fotografo di Srebrenica. Lo spettacolo era sconvolgente. C’era gente morta dappertutto: per strada, nei giardini delle case… Per rincuorarci, papà ci strinse e ci disse: “Vedrete che la guerra sarà breve e che torneremo presto a casa”».
Povero papà. Provo a mettermi nei suoi panni. È difficilissimo. Ma che altro avrebbe potuto fare il signor Hasanović se non lottare con tutte le sue forze, anche con l’arma della bugia a fin di bene, per salvare la sua famiglia? Per salvarla anche mentalmente.
«Siamo rimasti a Srebrenica fino al marzo del 1993. Ti giuro che non so come abbiamo fatto a sopravvivere senza cibo. Posso solo dire che siamo stati fortunati, che Dio ci ha aiutati tanto». Apre per un attimo i palmi delle mani al cielo, immediatamente riprende: «Nel marzo del 1993 l’ultimo convoglio delle Nazioni Unite portava cibo a Srebrenica. Papà disse a mamma che sentiva il bisogno di mandarci a Tuzla. Quella che ci si presentava era una grande possibilità, una possibilità forse unica, quella di lasciare Srebrenica, ci disse papà, poiché la situazione in città era molto pericolosa e non faceva sperare in un lieto fine. Ricordo distintamente mia madre salire su un camion e mio padre passarci a lei prendendoci da terra. Prima la nostra sorellina, quindi mio fratello, infine io. Rammento che nostra madre ci tenne per tutto il tempo del viaggio stretti tra le sue braccia così che nessuno potesse farci del male. Allorché con i camion dell’Onu passammo attraverso la città di Bratunac, i civili serbi ci bersagliarono con pietre e altri oggetti. Più avanti, a Zvornik, i soldati serbi fermarono la nostra colonna e ci fecero salire su altri camion, dei telonati. A Tuzla ci portarono in un grande luogo chiamato Mejdan. C’erano un sacco di donne con bambini. Non dimenticherò mai il sapore del cibo che ci diedero da mangiare. All’inizio scoprii di odiare quell’odore e quel sapore, che trovai disgustosi, ma poi cominciai a farmeli andare a genio, e anche tanto, perché non è che ci fosse da scegliere. Qualche settimana dopo, la sorella di mio padre riuscì a venirci a prendere e a portarci fuori dalla Mejdan. Mia zia era riuscita a lasciare prima di noi Srebrenica e a portare con sé altri membri della nostra famiglia. Vivere era veramente difficile. Non c’era nulla. Mia nonna paterna percepiva una pensione tedesca e a volte, quando arrivavano i soldi, riusciva a comprarci un po’ di farina, se il prezzo al mercato nero non era troppo alto. Per parecchio tempo abbiamo occupato un intero piano di una casa serba. Eravamo in tredici, tutti della stessa famiglia. Pensavamo che papà fosse morto e che non lo avremmo mai più rivisto. Anche a Tuzla c’era la guerra e per tutto il tempo, giorno e notte, si udivano esplosioni e spari. Un giorno, una persona venne a trovarci per comunicarci che un fratello di papà era morto. Rimanemmo choccati. Zio ucciso! Pensammo che lo stesso destino fosse toccato anche a papà e all’altro suo fratello… Erano rimasti tutti a combattere per difendere Srebrenica…».
Convivere per mesi con la disperazione e con il terrore dell’abbandono. Ecco cosa aspettava Ado e i suoi. Poi, «quando, nel luglio 1995, ci dissero che Srebrenica era stata occupata dai soldati serbi, venimmo a sapere che molte persone s’erano messe in marcia per cercare di raggiungere Tuzla».
Si trattava di quella che poi sarà chiamata “colonna mista”, circa quindicimila persone affamate, scalze, male armate, in maggior parte uomini, che l’11 luglio si misero in marcia attraverso le montagne e i campi minati per scampare a una tragica fine certa e per cercare di raggiungere Tuzla, la salvezza. Migliaia di loro saranno catturati con odiosi stratagemmi; altri salteranno sulle mine o saranno fatti a pezzi dalle granate; molti si suicideranno avendo preso coscienza d’essere impossibilitati a percorrere quegli ottanta durissimi chilometri e non volendo finire nelle mani della soldataglia serbo-bosniaca e dei paramilitari serbi. Tutto questo e molto altro trovate nel mio Srebrenica. I giorni della vergogna.
«Speravamo, con tutti noi stessi, che anche papà e zio facessero parte di quella colonna di disperati – racconta Ado, gesticolando quasi come un italiano – Ma non sapevamo nulla… Alla fine, tutti e due sono riusciti a sopravvivere e sono arrivati a Tuzla. Quando nostro padre arrivò e ci riabbracciò, la situazione era ancora molto brutta ma sapevo che avrebbe fatto l’impossibile per non farci mancare l’essenziale per sopravvivere, nonostante fosse stremato, affamato, veramente provato. Poi è sembrato un miracolo ma la guerra è finita…».
Un buon padre può fare la differenza per la vita dei propri figli soprattutto se neppure per un istante, persino neppure in guerra, dimentica il suo ruolo nei confronti dei propri bambini. Pensate al padre di Ado. Un vero saggio, capace con pochi gesti e altrettante decisioni quasi istintive d’imprimere fin da bambino nel figlio le impronte da percorrere nel futuro. Nulla di preciso. Solo tanta creatività. La creatività che ti tiene vivo. Impronte all’insegna del sogno, della lotta per la realizzazione di un’utopia. C’è chi per i figli non è in grado di andare al di là d’immaginare un futuro nella fabbrichetta di famiglia – pensate a tanti casi simili in Italia. Il signor Hasanović credeva invece nel sogno e nella sua impressione su una pellicola. Così… «Papà lasciando Tuzla era riuscito a portare con sé la sua videocamera e nove nastri che aveva girato a Srebrenica – racconta Ado – Tempo dopo esserci riuniti ricordo che ci portò un computer, che non so dove avesse trovato, e invitò me e i miei fratelli a esercitarci, sostenendo che in futuro ci sarebbe tornato utile. Telecamera e computer… Aveva ragione!». E istruzione, decisiva per essere cittadini consapevoli e critici e per avere gli strumenti giusti per prendere in mano la propria vita.
«Ho finito il ciclo delle scuole elementari a Tuzla nell’anno scolastico 2002-2003 – prosegue Ado – Durante gli anni della scuola ho cominciato a usare la videocamera di mio padre. Mi sentivo bene, forte, mentre riprendevo. Intanto, nel 2001-2002 papà e mamma erano tornati più volte a Glogova e, grazie all’aiuto di alcune organizzazioni internazionali, avevano cominciato a ricostruire la nostra casa. Mio padre riuscì a trovare per mamma un lavoro come cuoca nel campo statunitense della SFOR – Stabilization Force in Bosnia and Hercegovina, missione di stabilizzazione a guida Nato (Nda) – che aveva piantato le tende proprio a Glogova. Nel 2002 l’attore Arnold Schwarzenegger visitò il campo e fece una foto in posa con mia madre. Ho sempre trovato tutto questo quanto meno surreale. Così, dal 2002, io, mia sorella e nostro fratello rimanemmo a studiare a Tuzla senza i nostri genitori, a parte qualche breve visita alla nostra casa».
Eppure proprio lì, a Glogova, aveva fatto il nido il futuro di Ado. Ma questo non ha niente a che vedere col muscoloso Schwarzenegger. Non fatevi idee strane sui divi del cinema e sui politici, a maggior ragione quando sono la stessa persona. Seguiamo Ado: «Sono tornato per la prima volta a Glogova nel 2001. Era ancora tutto distrutto. Visitammo solo la nostra casa, rientrando a Tuzla la sera. Andare a Srebrenica era pericoloso. Nel 2001 i cetnici serbi aveva tirato bombe dalle macchine e sparato colpi di kalashnikov contro chi cercava di rientrare. Ricordo che ci furono anche delle vittime. Solo alla fine della scuola superiore, nel 2006, sono tornato a vivere a Glogova coi miei genitori, lasciando Tuzla. Un primo avvicinamento a Srebrenica c’è stato proprio quell’anno. Fui il primo musulmano a entrare a far parte dell’ong Odisej a Bratunac…».
Vedete come tornano le cose? E vi giuro che tutte le concatenazioni che potete trovare – e sono tante – in questo libro sono nate casualmente negli anni, quasi che sia stato il caso a volere che questo libro nascesse.
«Che m’iscrivessi a Odisej lo volle fortemente mio padre e lo accontentai volentieri. Mi spiegò quanto fosse importante che io fossi vicino a persone che stavano facendo molto per la convivenza in una città difficile come Bratunac. Sempre nel 2006 m’iscrissi al corso di laurea in Legge a Srebrenica, dove l’Università di Sarajevo aveva aperto alcuni dipartimenti distaccati. A metà studi però, dopo due anni, mi stancai e decisi d’iscrivermi all’Accademia del cinema di Sarajevo».
Da questo momento in poi però il tempo comincia a correre, come accade purtroppo molto spesso a noi adulti, costretti a fare i conti con la vita che scorre a velocità così terribilmente cinica. Una velocità che ci denuda impietosa davanti allo specchio delle nostre umane fragilità. «Nel 2007 sono stato con Odisej in Norvegia e poi in parecchie altre città della Bosnia, incluso il villaggio di Milici, non lontano da Srebrenica. Qui conobbi i ragazzi dell’associazione Prijatelji Srebrenice. Ci piacemmo. Mi chiesero di andare a lavorare con loro a Srebrenica e decisero d’investire su di me. Mi spostai allora da Glogova e andai a vivere da solo a Srebrenica. Era il maggio 2007. Per me fu una sfida avvincente ma rimasi anche molto sorpreso. Fin’allora, infatti, ignoravo che a Srebrenica vivessero dei giovani e che lavorassero per socializzare tra loro. In Prijatelji Srebrenice convivevano sia musulmani che serbi e collaborare con loro è stato entusiasmante. Il 2007 per me è stato un anno decisivo. In estate visitai la Macedonia e al rientro mi fermai a Sarajevo, dove per la prima volta potei assistere al Sarajevo Film Festival. Al mio rientro a Srebrenica girai il mio primo film documentario, Ja sam iz Srebrenice, Io sono di Srebrenica. Sempre quell’anno fui membro della giuria del festival cinematografico Srebrena Traka, a Srebrenica, dove fu anche proiettato il mio film, poi premiato nel 2008 con un premio speciale a Mostar. Proiettai quindi Ja sam iz Srebrenice al Sarajevo Film Festival del 2009. Una soddisfazione immensa. Nel 2008, intanto, fui nominato direttore creativo del festival Srebrena Traka e, contemporaneamente, coordinatore video di Prijatelji Srebrenice. È stato un periodo di iperattività, in cui non facevo che muovermi, lavorare, filmare. Ho conosciuto, tra l’altro, un sacco di gente interessante che veniva a visitare Srebrenica pressoché da ogni Paese del mondo. Fino al marzo 2011 non ho fatto altro che lavorare e crescere professionalmente. Pensa che nei quattro anni in cui ho vissuto e lavorato a Srebrenica ho firmato quattrocento notizie video per dieci differenti emittenti televisive bosniache, trentacinque trasmissioni per giovani chiamate Video Žurnal e molti documentari e film corti. Il mio progetto più importante e impegnativo è stato in quel periodo, e fin qui, Andjeo Srebrenice, L’angelo di Srebrenica, il mio primo corto professionale per il quale ho ricevuto molti premi internazionali». E che io ho il piacere di portare con me in quasi tutte le presentazioni dei miei libri e nei miei incontri pubblici, per mostrarlo ai presenti. E poi provare, via posta elettronica o facebook, a ripetere ad Ado il fragore dei meritati applausi. «Poi nel marzo 2011 è arrivato il momento di spostarmi a Sarajevo per iscrivermi, finalmente, all’Accademia del cinema e studiare come regista. E Andjeo Srebrenice è stato molto importante per coronare questo sogno. A Sarajevo ho scoperto così d’essere uno dei pochissimi studenti iscritti all’Accademia del cinema provenienti dalla Bosnia orientale…».
Qui, nella bella capitale, oltre alle grandi soddisfazioni, sono anche arrivati i primi enormi problemi. Perché «in Bosnia si vivrebbe anche bene, peccato non ci siano opportunità. Studiare e avere un sostegno è praticamente impossibile, anche se sei “giovane e di talento”, come mi sento definire in continuazione. La cosa meravigliosa è che i politici dichiarano in continuazione che i giovani di talento vadano sostenuti in ogni modo! – manda giù una lunga sorsata di pivo per far scendere il rospo – Quale grande menzogna! Sapessi a quante porte ho bussato, ma nessuno si interessa a te. Ho chiesto a oltre centocinquanta tra aziende e persone importanti di aiutarmi con gli studi dandomi un lavoro, ma in pochi hanno risposto positivamente e nessuno ha fatto nulla. Ma se conoscessi un politico, allora le porte sarebbero aperte… Va così, è tutto sbagliato! Non so cosa accadrà nei prossimo dieci anni. Ma io conosco le mie capacità e voglio coronare il mio sogno, chiamala ambizione se vuoi, di diventare regista».
E poi, Ado?
«Tanti ragazzi se ne vanno all’estero. Lo fanno per cercare un futuro migliore, per trovare un lavoro, forse anche solo perché sono rimasti terribilmente scossi dalla guerra e delusi dal dopoguerra. Temo però che pochi di loro trovino, fuori di qui, il lavoro che sognano, la felicità che cercano. E allora devono accontentarsi di lavoretti. E di piccoli piaceri personali. Ben diversi da quelli che sognavano. Io non so che che cosa mi prospetti il futuro. Devo trovare i soldi per laurearmi in Bosnia, diventare un regista professionista, e poi andare a specializzarmi a Roma. Questo è quel che so, e che sogno. Poi vedremo dove mi porterà il futuro».
Ottima regia, Ado.
Ora speriamo nella coda al botteghino.
Nel frattempo, di cuore, in bocca al lupo!