sabato 8 dicembre 2012

L'antidoto della poesia e della letteratura della Bosnia Erzegovina del Novecento

Pubblico qui di seguito il canovaccio del mio intervento di venerdì 7 dicembre 2012 al palazzo dei Congressi dell’Eur, a Roma, nella sala Corallo, in occasione dell’iniziativa dal titolo “Moja Mila Bosna” organizzata dalle Biblioteche di Roma alla Fiera del libro “Più libri più liberi”. All’incontro hanno partecipato Mario Boccia, Elvira Mujčić e, per le letture, Nela Lucić.

La domanda che mi era stata posta dalle amiche delle Biblioteche di Roma, all’atto di reclutarmi per questa bella iniziativa, suonava così: “Quale era la specificità della letteratura e della poesia bosniaco-erzegovese prima della guerra degli Anni ‘90 e quali i nomi della Bosnia post-bellica, quella nata con gli Accordi di Dayton del 1995”?
Lì per lì sono rimasto perplesso, anche perché l’argomento è più adatto a un professore che non a un giornalista. Poi mi sono detto: perché non accettare la sfida? E allora, in tempi in cui nessuno investe più in cultura, io ho investito in una piacevolissima telefonata e ho chiesto a un amico che conosce e ama la Bosnia come pochi, Gianluca Paciucci, di confrontarci sull’argomento e di permettermi di capire se le mie convinzioni potessero avere un fondamento condivisibile.
Ne è nata la riflessione che segue. Sulla specificità della letteratura bosniaco-erzegovese prima del disastro delle guerre degli anni Novanta del Novecento, non penso si possa discutere a lungo, e questo non per sminuirne l’importanza, ma al contrario per accrescerne il valore in uno spazio più grande di quello delle singole patrie (sempre più piccole, sempre più preda oggi di padri-padroni-padrini).
Non per vetero-internazionalismo o per vetero-jugoslavismo – anche perché non ho vissuto di certo nella Jugoslavia pre-1992 – credo che, essendo la Bosnia Erzegovina una piccola Jugoslavia, con tutte le caratteristiche migliori del sentimento jugoslavo (oltre che con tutte le tensioni), è veramente difficile suddividere per nazionalità una vicenda letteraria che cercava di superare le differenze in un ampio e condiviso spazio comune.
Ciò premesso, se volessimo comunque individuare delle personalità bosniache di spicco all’interno del contesto jugoslavo, è impossibile non ricordare la figura di Ivo Andrić, bosniaco di Travnik, la capitale reale bosniaca, nato nel 1892 e deceduto nel 1975 a Belgrado, premio Nobel per la Letteratura nel 1961 con questa motivazione: “Per la forza epica con cui ha tracciato e rappresentato i destini umani concernenti la storia del suo Paese”. In seguito all’assegnazione del Nobel, le sue opere vennero tradotte in moltissime lingue, incluso l’italiano. Di Andric tutti ricordano "Il ponte sulla Drina" ma non vanno dimenticate altre opere quali "La cronaca di Travnik", "Gospođica – Signorina," "I Racconti di Sarajevo", "La corte del diavolo" e altri ancora. Andrić è stato un autore non prolifico ma eccezionale.
Qualche anno prima di Andric, esattamente nel 1868, era nato Aleksa Šantić, mostarino d’origine serba, deceduto nel 1924, massimo esponente della c.d. nuova lirica della bosniaca. La vita di Šantić è stata non poco complicata dalla morte dei due genitori. Adottato da uno zio, severo e rigido commerciante, non vide mai riconosciuto il suo talento in famiglia. La vetta della sua opera giunge tra il 1905 e il 1910, anni di bruschi e anche drammatici cambiamenti per la Bosnia e per l’intera Europa. La poesia di Šantić è piena di forti emozioni e di malinconici amori. La poesia d'amore di Aleksa Šantić si sviluppa a partire dalle canzoni d’amore bosniache, le cosiddette e tremendamente malinconiche sevdalinke, e da qui egli trae l’ambientazione delle sue opere, nei tipici giardini bosniaci d'influenza turca. La sua poesia più famosa è forse “Emina”. La sua opera può piacere e non piacere…
La sua biografia romanzata è stata il soggetto di un film "Mio fratello Aleksa" ("Moj brat Aleksa"), con l'attore serbo Branislav Lečić nel ruolo del protagonista.
Come dimenticare, poi, Predrag Matvejević, croato di passaporto ma mostarino di nascita, intellettuale classe 1932 che vuole prepotentemente sfuggire a ogni sorta di etichettatura per esprimere attraverso la sua letteratura i principi più alti di rispetto, fratellanza, pace universale. Matvejević, per anni ordinario di Slavistica alla Sapienza, a Roma, ha firmato opere che rimarranno immortali nella storia della letteratura e che un giorno forse saranno lette nelle scuole, come Breviario mediterraneo e il recente Pane nostro.
Sul fronte della poesia, non esiterei a fare il nome di Mak Dizdar (1917-1971), poeta erzegovese di Stolac, splendida cittadina di mulini ad acqua a una ventina di chilometri da Mostar, dove 7-8 anni fa è stato restaurato il busto a lui dedicato, nel centro della città, devastato dagli opposti nazionalismi. L’opera principale di Dizdar, Il dormiente di pietra (1966) è un ripiegarsi nella storia della Bosnia Erzegovina del Medioevo, con i suoi bogumili (i “devoti a Dio”, forse dei catari d’origini bulgare, in ogni caso dei “dissidenti” pacifici, e non di rado arsi sul rogo, nei confronti della chiesa di Roma). I bogumili hanno seminato la Bosnia di steli e di tombe. In alcune di queste si vedono dei chiari simboli solari, e delle mani aperte che non impugnano gli archi e le frecce lì vicine: dei grandi simboli di pace. Una bellissima necropoli bogumila si trova a pochi chilometri da Stolac. Dizdar, impregnatosi a questa sorgente della storia, riflette su queste pietre-esseri umani, e scrive, nell’incipit della poesia “La sorgente”:
“Mi spalancai / e presi a scorrere” nella traduzione di Giacomo Scotti, oppure
“Mi sono dissolto / e sono fluito”, nella versione di Mladen Machiedo.
Sempre Dizdar scrive, parlando di pace, del soldato Gorčin, che ha combattuto
“In cinque e cinque guerre
senza scudo né corazza
Perché un giorno
Spariscano tutte le amarezze”.
Il nome Gorčin viene da gorak, parola che vuol dire amaro.
Altro poeta (ma anche storico e filosofo) da citare, naturalmente, è quello di Izet Sarajlić, nato a Doboj nel 1930 da famiglia musulmana, morto nel 2002, legato da un amore profondissimo alla moglie, cattolica ma figlia di un ortodosso, alla quale dedicherà struggenti poesie e che perderà alla fine della guerra del 1991-1995.
Un musulmano sposato con una cattolica figlia di un ortodosso: questa è la Bosnia, non quella che ci hanno raccontato gli Mladić, i Milošević, i Karadzić, ma anche i Tuđman e gli Izetbegović…
Sarajlić è il poeta che nel suo nome porta il nome di Sarajevo. La sua poesia, già appena dopo gli anni Cinquanta, portava il segno di una quotidianità che sfuggiva al progetto politico dominante, pur nell’amore per quel progetto, il progetto jugoslavo. La sua poesia è stata definita da Silvio Ferrari “Antologia della quotidianità inesauribile”. Nelle decine di libri che Sarajlic ha pubblicato si scorgono i ricordi feroci della seconda guerra mondiale (suo fratello, comunista, venne fucilato dai soldati italiani, ma questo non gli impedì d’amare profondamente il nostro Paese e la nostra cultura), quelli del secondo dopoguerra, da subito ambiguo per via delle scelte politiche titina, ma anche della Sarajevo sotto la pioggia sottile, poi diventa la Sarajevo degli amanti che resiste e resistono ancora e ancora, nel terribile assedio del 1992-1995, quello ignorato dal mondo intero per oltre 1.350 giorni.
Sarajlic è il poeta che “traghetta” la grande poesia jugoslava, attraverso la guerra del ‘92-‘95, nella Bosnia Erzegovina odierna.
Non esiterei, infine, a fare il nome di Abdulah Sidran, esponente della generazione post ‘68, anno che anche in Jugoslavia segnò il tempo delle proteste e delle speranze, tutte immancabilmente deluse. Sidran, l’unico vivente tra i citati – e a cui auguriamo lunga vita – è il poeta della critica anticonformista all’autoritarismo del potere centrale, senza che questa critica si trasformi in avventura nazionalista. Solo i crimini degli anni Novanta lo hanno portato a rivendicare posizioni di autonomia politica del suo Paese e a rivendicare una cultura propria della Bosnia Erzegovina. La sua Jugoslavia è quella di suo padre, comunista in dissenso con il potere centrale, e per questo incarcerato: la vicenda è stata raccontata nel film “Papà è in viaggio d’affari” (oppure, forse meglio, “Papà è in viaggio per lavoro”, essendo difficile, in quella Jugoslavia dirigista, viaggiare per affari), scritto da Sidran e realizzato dal geniale e assai discusso cineasta Kusturica, colui che ha rotto violentemente con la Bosnia ed è passato “dall’altra parte”, definendosi serbo e gettando sovente non pochi strali polemici sulla sua ex patria. Forse Sidran è stato il vero, grande precursore della cosiddetta “jugonostalgia”, prima ancora della dissoluzione della Jugoslavia: la nostalgia di un sogno solo in piccola parte avverato...
La specificità della poesia bosniaco erzegovese della seconda metà del Novecento, per concludere – permettetemelo – è di non aver mai ceduto ai fascismi, sotto qualsiasi forma si presentassero. E, ma questa è una scommessa, si presenteranno in futuro. La poesia e la letteratura della Bosnia di oggi e domani passa attraverso le penne di autori giovani e viventi, come Ferida Duraković e Senadin Musabegović, di cui ho avuto il piacere d’essere editore. Poi, e parliamo almeno per ora di letteratura, non va dimenticato il nome di Elvira Mujcic, autrice che scrive in italiano ma che rappresenta, anche stilisticamente, una grande scommessa per il futuro della letteratura bosniaca e, in generale, dell’area ex jugoslava.