mercoledì 18 gennaio 2012

“Babel Hotel” ovvero come l’ipocrisia italiana trasforma un luogo di vacanza in simbolo di marginalità


Che cosa accade ogni giorno all’interno di un gigantesco condominio composto da 480 appartamenti e abitato da duemila persone – che in estate diventano tremila – con lingue, culture e provenienze differenti? Come le esistenze e i sogni degli inquilini di questo strano ma realissimo luogo si intrecciano – e a volte si scontrano – con quelle degli abitanti della limitrofa cittadina di mare marchigiana?

Ce lo spiega, con rara chiarezza e sicuro fascino, Babel Hotel, un libro che è una “presa di parola” collettiva sul tema delle città plurali e delle diverse forme di marginalizzazione sociale causate anche dal sentimento di paura legato alla venuta dei nuovi "intrusi": i migranti. Ma, sopratutto, è una potente metafora, una tensione verso il futuro: qualcosa “a venire” che potrebbe con il tempo superare il margine narrativo per trasformarsi in un progetto creativo, sociale e politico più ampio.


L’autrice di Babel Hotel ci spiega nell’intervista che segue la genesi del libro e che cosa voglia dire vivere da “diversi” in un mostruoso luogo creato negli Anni ’70 a Porto Recanati, nelle belle Marche, per gli “uguali”, ovvero per tutti quegli italiani che, soldi in mano, avevano eletto l’Hotel House a luogo di villeggiatura estiva. Poi il terremoto ad Ancona, la struttura utilizzata per ospitare i terremotati, la speculazione che ha approfittato del crollo del valore degli appartamenti per comprarli a pochi soldi e affittarli, magari in nero, prima ai meridionali che puntavano verso la zona per il lavoro stagionale, infine ai cosiddetti extracomunitari, quelli che sognano un futuro migliore e il cui sogno diventa, in Italia, regolarmente incubo. Fino ad arrivare all’attuale Hotel House e al classico esempio di furba ipocrisia all’italiana…

Ramona, la prima cosa da fare credo sia provare ad accompagnare chi ci sta leggendo, a parole, all’interno dell’Hotel House. Come descriveresti questo luogo non di fantasia ma di cruda realtà?
Un enorme animale di cemento che ospita lungo sedici piani circa duemila persone provenienti da almeno trentadue Paesi diversi, con lingue, codici culturali e immaginari differenti.

E come lo definiresti?
Una sorta di ricca e polifonica babele postmoderna non troppo felice…

Quando nasce, e perché, il tuo interesse per questo luogo incredibile?
In questo luogo sconosciuto ci sono arrivata nel lontano 2007 grazie a Cristiano Maria Bellei, il mio relatore della facoltà di Sociologia della multiculturalità all’Università di Urbino. Poi, intervista dopo intervista (hainoi!) la tesi è stata accantonata e pian piano ha cominciato a nascere e a crescere il libro/progetto in cammino Babel Hotel.

Ma è davvero un posto pericoloso, un rifugio per delinquenti, come certa propaganda politica denuncia, anche con manifesti molto forti?L’Hotel House è una zona franca perché così a molti locali fa comodo che sia, un luogo molesto e desiderato nello stesso tempo perche così, almeno “tutti i migranti rimangono lì e non si mischiano con il resto della popolazione”. L’Hotel House dispiace e piace, è un problema aperto, una ferita che nessuno si vuol prendere la briga di curare forse per comodità, forse per incapacità o forse anche perché richiederebbe interventi complessi e mirati e non il semplice abbattimento fisico del palazzone di cemento.

L’Hotel House, secondo te, è un luogo in cui culture diverse vivono barricate, quasi assediate, oppure può essere il nucleo di materia compressa da cui possa nascere, prima o poi, un big bang culturale che ci renda tutti migliori, “assediati” e “assedianti”…Forse né l’uno né l’altro o forse entrambe le cose e non solo. L’Hotel House è una metafora viva, pulsante, che ci costringe a un pensiero diverso, a cominciare finalmente a mettere in una rete virtuosa competenze diverse (l’urbanistica, la sociologia, i saperi didattici, la giurisprudenza eccetera eccetera e gli operatori dei vari settori). Sicuramente l’Hotel House potrebbe anche rivelarsi un’occasione unica per tutti per iniziare a sedersi vicini intorno a un tavolo e aprire nuove soglie per fare comunità in modo nuovo: in un modo appunto “singolare e plurale” nello stesso tempo.
Come nasce l’idea del libro, e perché?
Il libro nasce dopo aver “collezionato” originali e particolari interviste ai migranti (e non solo) che abitano il famoso palazzone per la mia tesi. Dopo aver letto più volte le interviste ho pensato di girarle a scrittori di differente provenienza geografica ma anche operatori interculturali, mediatori, musicisti e poeti. Da qui, pian piano, le persone che ho coinvolto hanno letto le varie interviste dalle quali poi si sono ispirate per scrivere racconti, poesie e canzoni che compongono la raccolta Babel Hotel.

Credi che attraverso “Babel Hotel” si possa avere una percezione meno pressappochista dell’Hotel House e di chi ci vive e possa nascere un dibattito aperto e costruttivo sulle tematiche dell’immigrazione e della multiculturalità?
Sicuramente sì, il libro a tratti riporta anche interi frammenti delle interviste “occultati” dentro i racconti, le poesie e le canzoni. Il libro ha il profumo dell’Hotel House perché in qualche modo proviene da li e all’Hotel House è dedicato. Nello stesso momento però si offre anche come metafora per molte altre realtà babeliche e multiculturali che ormai sono parte viva delle nostre città meticcie.

Da bresciana e potenziale secessionista di questa inventata e inesistente “Padania”, come vedi le politiche sociali e l’integrazione della ricca Lombardia e in generale del ricco Nord Italia e perché, secondo te, certe idee razziste e xenofobe si fanno strada con così tanta facilità negli italiani che vivono da quelle parti?
Si fanno strada perché la vita ora si è fatta sempre più incerta, fragile, precaria. Proprio per scongiurare questa ormai cronica precarietà molti pensano che eliminando quelli che secondo loro sono l’immagine simbolica del nomadismo e dell’instabilità, si possa uscire da questo incubo sociale: l’impossibilità di immaginare piste certe, un futuro, una progettazione a lunga durata. Migranti come nuovi intrusi, come coloro che rimandano costantemente alla nostra povertà linguistica, sociale e culturale nel fronteggiare le nuove sfide sociali.