martedì 26 luglio 2011

La “sgrammatica” del teatro di Emma Dante: intervista a Giuseppe Distefano


Oltre a lunghe ed estenuanti prove, dietro ogni spettacolo teatrale c’è – talvolta dimenticato – il talento e la sensibilità di un fotografo, chiamato a immortalare e rendere talvolta eterni istanti comunque irripetibili. Giuseppe Distefano è tra questi grandi protagonisti della macchina fotografa ed è la persona che, negli ultimi anni, ha immortalato in scatti superbi i principali momenti di vita e d’espressione di tutti gli spettacoli della grande regista e autrice palermitana. Il vastissimo repertorio di immagini fotografiche degli spettacoli della Dante – MPalermu, Carnezzeria, La Scimia, Vita mia, Michelle di Sant’Oliva, Cani di bancata, Il festino, Le pulle, Acquasanta – è al centro di un prestigioso e raffinatissimo lavoro dedicato all'opera della regista – una delle rivelazioni più importanti del panorama del teatro contemporaneo, vincitrice per la regia e la drammaturgia di importanti premi – e pubblicato da Infinito edizioni (Giuseppe Distefano, Il teatro di Emma Dante, 2010).
Delle immagini del fotografo siciliano la Dante ha scritto nella prefazione firmata nel libro: “La luce delle foto di Distefano è una luce che svela insopportabili dettagli, nascoste verità che dalla sala non possono vedersi. C’è sempre nei miei spettacoli qualcosa di segreto, qualcosa che non arriva al pubblico e che serve agli attori per mantenere il mistero che nutre parole e gesti. Il mio teatro è, soprattutto, un accadimento; per questo è importante trovare uno sguardo capace di cogliere il lato nascosto delle cose”. A Distefano ho chiesto di rivelare a parole, in questa breve intervista, alcuni di questi dettagli.

Giuseppe, nel tuo “Il teatro di Emma Dante” tratteggi con scatti splendidi la prima fase della carriera di una grande regista, stimata ormai non solo in Italia. Vuoi provare a pennellare ora a voce il teatro di Emma, raccontandolo come lo vede un fotografo che raccoglie in migliaia di scatti l’intrecciarsi di decine di vite con il genio creativo di una grande regista?
Mi interessano, perché credo che siano più vere, le immagini “sgrammaticate”. E il teatro della Dante lo è. È “sgrammaticato” perché rompe e infrange regole linguistiche e canoni scenici tradizionali. È un teatro dove non ci si trucca per andare in scena, anzi, ci si strucca per essere, gli attori, più veri possibile. Nel suo teatro troviamo occhi sbarrati, bocche spalancate, movimenti sgraziati, posture sghembe, danze forsennate. E le foto ritraggono tutto ciò. Tutta questa “grammatica” nasce da un encomiabile lavoro sul e col corpo. Un lavoro duro, faticoso, rigoroso, al quale gli attori sono sottoposti. Un lavoro che rivela l’essenza dell’attore, lo denuda, lo svela. È un lavoro dove è importante non come si muove il corpo, ma cosa lo muove. E questa è la sfida per chi fotografa: riuscire a cogliere in uno scatto la necessità interna di un movimento, di un gesto, di un’espressione.

Come nasce il tuo rapporto professionale accanto a Emma Dante?
Nasce da un incontro, come tutte le cose importanti. Da un avvicinamento graduale scaturito da una lunga e appassionata intervista in due tappe che le feci per il mensile di spettacolo Primafila. Era alle prese con un laboratorio per lo spettacolo Cani di bancata e le chiesi se potevo assistervi e fotografare le varie fasi di lavoro. Da lì in avanti ho cominciato a entrare nelle viscere del suo “fare” teatro. Entrare nello spazio creativo di Emma, nella sua scrittura scenica, significa “sporcarsi”, essere anch’io corpo vivo della scena.

La regista Emma Dante, la grande creativa, e la donna, coincidono o sono, come a volte accade una volta scesi dal palco, persone completamente diverse?
Non conosco la dimensione prettamente privata, intima, personale di Emma, tale da poter di conoscerla. Conosco, un po’, quella artistica per la frequentazione in momenti di prova, di laboratorio, di spettacolo, di incontri pubblici. Credo di poter dire, come impressione, che Emma sia sempre lei, dentro e fuori la scena.

Il teatro di Emma Dante ha una profondissima valenza sociale ed è coraggioso, oltre che splendido e ispirato, teatro di denuncia. Basti pensare ai lavori dedicati dalla regista alla piaga della mafia. Possiamo però definire quello della Dante “solo” teatro sociale o c’è qualcosa – forse addirittura molto – di più?
Nel lavoro di Emma c’è una forte dimensione di denuncia: vedi Cani di bancata, che parla di mafia e politica, o Le pulle, che affronta l’argomento scomodo della prostituzione, del travestitismo, ecc. Ma la definizione di “teatro sociale” non esaurisce il suo teatro. Non credo si possa catalogare e ridurre a questa etichetta restrittiva. Emma racconta, mostra, evoca territori umani aspri e violenti, cerimonie e ritualità (irrituali) che hanno radici in mondi famigliari ancestrali e attualissimi, dove, in fondo, si può leggervi un forte bisogno d’amore. Perché tutto nasce da lì. C’è, in sintesi, una cartografia antropologica dell’anima che ha a che fare con l’essere umano.

Nel testo con cui accompagni le immagini parli del teatro della Dante come di “pane per gli occhi”. È un’immagine di una profondità e di una bellezza difficilmente eguagliabile. Perché “pane per gli occhi”?
Perché gli occhi, per un fotografo, e non solo, sono la fonte di nutrimento. Ci si nutre di immagini. E quando queste ti “parlano”, quando toccano corde intime, emotive, allora fanno parte di te, ti costituiscono. Ti nutrono, appunto. Scrivo che la forza e le potenza delle immagini che Emma crea sono pane per gli occhi, inteso come nutrimento emotivo e conoscitivo di un mondo interiore, psicologico, sociale, che può servire a stimolare, a interrogare e interrogarsi, offrendo allo spettatore suggestioni sommerse e svelamenti di un immaginario personale e comune.

Perché, secondo te, da profondo conoscitore di teatro, il governo di questo Paese sta sistematicamente buttando via questo “pane per gli occhi”? Gli italiani forse non ne hanno bisogno?
L’affermazione emblematica di questo modo di pensare che il governo di questo Paese ha sistematicamente attuato, è stata la dichiarazione di un ministro quando ha sentenziato che la cultura non si mangia. Chi pensa così dimentica che la cultura è nutrimento. È elemento essenziale e insostituibile di conoscenza. In realtà l’aspetto tragico è pensare che le persone debbano soltanto mangiare. Si trattavano così gli schiavi. La cultura invece serve a dire alle persone che la vita ha un senso al di là delle necessità primarie. Oltre il mangiare, che viene senz’altro prima di tutto, c’è anche il fatto che con la mia vita io devo farci qualche cosa e non quello che dice un altro. E che si voglia persone solo a servizio di qualcun altro è esattamente quello che ha in testa proprio chi dice che la cultura non si mangia.