mercoledì 8 giugno 2011

“Chernobyl non era una steppa disabitata, era vita pulsante”: intervista a Massimiliano Squillace su “Chernobyl. Scatti dall’inferno”


“È difficile immaginare di essere così vicini al mostro. Chernobyl è una parola che fa tanta paura, è un nome proprio diventato sentimento comune, spavento. Vedere le foto, leggere la cronaca al dettaglio di chi ha sfidato la propria carne per raccontare, colpisce al cuore”. Nel testo del musicista (Tete de Bois) e pediatra Andrea Satta c’è la drammaticità e l’importanza sociale e civile di CHERNOBYL. SCATTI DALL’INFERNO, il reportage foto-giornalistico di Massimiliano Squillace pubblicato da Infinito edizioni a 25 anni dal tragico incidente nucleare di Chernobyl.
All’una e 26 minuti della notte del 26 aprile 1986 la centrale nucleare di Chernobyl, costituita da quattro reattori realizzati tra gli Anni ‘70 e ’80, esplode lanciando nell’atmosfera venti milioni di Curie di materiali radioattivi. La nube tossica raggiunge dapprima i Paesi scandinavi, poi il resto dell’Europa, con il governo ucraino che comunica solo con colpevole ritardo l’immane tragedia verificatasi a Pripyat, dove vivevano circa cinquantamila persone. Che cosa ne è, oggi, di Chernobyl?
Ne abbiamo parlato con Massimiliano Squillace, autore di questo prezioso volume.

Massimiliano, “Chernobyl. Scatti dall’inferno” nasce da un viaggio nel luogo del fall-out del 1986, allorché l’umanità si trovò a doversi confrontare con la sua impotenza e approssimatività. Ma il viaggio da che cosa parte, a sua volta?
Per lavoro viaggio, giro il mondo e cerco di far nascere qualcosa da ogni luogo che visito, da ogni odore che sento. Mi trovavo in Ucraina per tutt’altro motivo quando all’Università di Kiev ho conosciuto un ragazzo che posso definire senza dubbi un superstite: Vlad, 34 anni, 25 anni fa evacuato dall’area di Chernobyl.
Io sono curioso, chiedo, giro, faccio domande. E quando nel mio interlocutore vedo occhi che vogliono liberarsi non riesco a fermarmi e così è stato con Vlad. Lui aveva così ben stampati nella sua mente i giorni dell'esplosione, e un bisogno così forte di raccontare quella tragedia, che quasi mi ha chiesto lui di andare a sincerarmi di che cosa fosse rimasto a Chernobyl oggi. Non perché non potesse andarci di persona, ma in questo quarto di secolo non ha mai trovato il coraggio, la forza, di tornare a Chernobyl.
In Ucraina c'è una tendenza generale a non parlare del disastro, a dimenticare. Vlad è uno dei pochi che invece si è aperto e mi ha chiesto di vedere, testimoniare, raccontare.


Come descriveresti quel che hai visto?
Il primo impatto è il silenzio. È questo è quello che ho voluto provare a far percepire nel libro. La mia macchina fotografica era in quell’occasione una compatta da 150 euro, io non sono un fotografo professionista, le foto devono raccontare, io non faccio foto belle, faccio foto che respirano.
Poi mi è venuto naturale rivolgere un pensiero ai ragazzi di Kiev che avevo conosciuto la sera prima. Lo racconto nel libro, ragazzi terrorizzati al solo sentire il nome Chernobyl che, come dice Andrea Satta, è diventato sentimento comune, e così mentre il militare mi preparava a entrare nell'area, il mio pensiero era a loro, così vicini e eppure così lontani con la mente e col cuore da quello scempio creato dall'uomo. Per loro non esiste. È tragico.

Se ora avessi davanti a te uno dei “santoni” italiani del “torniamo al nucleare”, di quelli che fanno i conti non con la salute delle persone ma con quella dei profitti (anche dei loro personali, probabilmente), come cercheresti di convincerlo della necessità di abbandonare per sempre l’ipotesi della fissione nucleare per produrre energia in Italia, investendo invece su energie alternative e sulla ricerca scientifica?
Abbassare quella tragedia a mera discussione popolare sul nucleare non era quello che volevo; la mia speranza è che le mie immagini e le parole di vita distrutta da quella centrale parlino più di qualsiasi dibattito da bar o televisivo. Una sola immagine potrebbe bastare a questo scopo: le centinaia di libri nella scuola abbandonata vicino alla centrale.

Perché?
Perché è la parte rimasta più “viva”, pulsante. Nulla più di quei pochi metri può dare l'idea della morte e della distruzione che ha generato l'incidente.

Il disastro di Fukushima, in Giappone, può essere considerato alla stregua di una sorta di promemoria che la natura e il caso ci hanno voluto far ricevere?
Quando in questi giorni sento parlare del Giappone, spesso mi accorgo che chi lo fa usa argomentazioni che tendono a far passare il messaggio per il quale quella, in fin dei conti, non è una centrale che sta dentro casa nostra. Invece quella centrale nucleare, tutte le centrali nucleari, sono dove viviamo noi, vivono con noi. Nel nostro giardino. Questo è quello che Chernobyl e l'area intorno raccontano.

A Chernobyl hai trovato quel che ti aspettavi di trovare oppure hai avuto delle sorprese, delle esperienze inaspettate?
L’errore più grande che facevo prima di vedere l’area era immaginarmi una città triste e figlia del socialismo reale sovietico degli Anni ‘80. Non è così. Chernobyl e Pripyat erano città vive, luoghi vivi. Culturalmente vibranti, con discoteche, centri sociali e culturali, caffè letterari all’aperto. Io sono di Milano, e posso assicurare che l’ultima Milano che ho vissuto è meno viva della Pripyat del 1986. Questo ancor di più mette sulle nostre spalle il macigno nucleare come incognita sul nostro futuro. Chernobyl non era una steppa disabitata: il disastro è accaduto e ha spezzato migliaia di vite vere. Come le nostre.

Ci sono tantissime persone, come racconti nel libro, che tutti i giorni lavorano nei pressi della centrale. Con quali rischi?
Ci sono quasi quattromila persone che ogni giorno lavorane nei pressi della centrale. Il rischio di radiazioni è altissimo, i turni sono da 12 ore al giorno per due settimane, poi si torna a Kiev per altre due settimane. Tutti quelli che lavorano alla centrale portano registratori individuali delle radiazioni appuntati al petto. Questo può far capire il livello di tensione.

Venticinque anni dopo, possiamo fare un bilancio delle vittime di Chernobyl? Penso al racconto che Andrea Satta ha voluto regalare ai lettori come testo di postfazione. Quanti esseri umani ha ucciso Chernobyl?
In Bielorussia e Ucraina furono contaminati direttamente più di 140.000 chilometri quadrati di territorio, un’area grande due volte l’Irlanda, e fu necessaria l’evacuazione di 350.000 persone. A 25 anni di distanza, l’esplosione ha ancora un pesante effetto sulla popolazione e tutt’oggi si registrano nuove vittime ogni anno. Ma la mia etica mi impone di parlare anche della vergognosa abitudine del potere alla menzogna, oggi come ieri. Ieri furono dichiarate morte poco più di 30 persone per Chernobyl, coloro che morirono nell’incendio. Oggi qualcuno in Giappone dichiara che Fukushima non ha fatto vittime “dirette”. Con quelle odiose virgolette che dopo 25 anni tornano a fare capolino parlando di nucleare.