lunedì 9 maggio 2011

“Il sentiero dei tulipani” o viaggio tra i danni irreparabili della guerra in Bosnia – intervista ad Angelo Lallo


di Luca Leone
©Infinito edizioni 2011 – Si consente l’uso libero di questo materiale citando chiaramente la fonte
Lo stupro di 50.000 donne, oltre centomila morti, la devastazione della Bosnia Erzegovina affondano le radici nello psiconazionalismo, cui è dedicato IL SENTIERO DEI TULIPANI. PSICONAZIONALISMO IN BOSNIA ERZEGOVINA, un libro assolutamente unico.
Il nazionalismo balcanico si è intrecciato con teorie di studiosi appartenenti a varie discipline, tutti animati da un’ideologia esasperata. Nei Balcani ci si è trovati di fronte a un nazionalismo che ha operato una torsione verso discipline psichiatriche, con sconfinamenti teorici tratti da psicologia, filosofia, storia e genetica. Una variante del nazionalismo, quella balcanica, che ha trovato piena sintonia con gli ambienti militari, politici, economici che ne hanno assunto le teorie, utilizzandole come base per le pulizie etniche e gli eccidi – incluso il genocidio di Srebrenica – della guerra in Bosnia Erzergovina e in Croazia (1991-1995) e, successivamente, come protezione per non essere condannati per i crimini commessi.
Di questo e molto altro abbiamo parlato in un’approfondita intervista con l’autore del libro, il ricercatore storico Angelo Lallo.


Angelo, il tuo è il primo lavoro in assoluto che racconti dall’interno, e con dovizia di particolari, le radici dello psiconazionalismo nei Balcani. Vuoi spiegare ai lettori che cosa intendi per psiconazionalismo e come sei arrivato a coniare questo neologismo?
Quando si crea un’identità nazionale legata dal collante psicologico della paura e dell’angoscia; quando il nazionalismo si lega alla terra, al sangue e all’odio sociale; quando si costruisce una bolla collettiva di paura fondata sulla psicologia di massa; quando il nazionalismo fa una torsione verso discipline psichiatriche con ampie incursioni nella genetica/filosofia/storia, in questo caso si genera un connubio anomalo tra nazionalismo e psichiatria deviata. Il neologismo arriva direttamente dai Balcani ed è stato assunto discutendo con operatori della psichiatria bosniaca che continuamente (e forse inconsapevolmente) riproponevano questo termine per spiegarmi la particolarità del nazionalismo della Bosnia Erzegovina. Da notare la provenienza professionale di alcuni attori della tragedia balcanica: Jovan Rašković (psichiatra), Radovan Karadžić (psichiatra), Biljana Plavšic (biologa, specializzata in genetica), Vasa Čubrilović (filosofo/storico), Vasilje Krestić (storico).

Il sottotitolo del libro (“Psiconazionalismo in Bosnia Erzegovina”) è splendidamente descrittivo. Il titolo (“Il sentiero dei tulipani”) invece è chiaramente evocativo. Quale storia giace dietro questo titolo?
È un titolo “rubato” da un viaggio introspettivo nell’anima violata. “Il sentiero dei tulipani” ripropone il momento di uno stupro etnico a opera dei serbi nei confronti di una ragazza bosniaca. Oltre lo stupro – avvenuto in una radura piena di fiori – la ragazza, incredibilmente senza rancore, ricorda una stessa radura alla fine di un sentiero pieno di tulipani durante un suo bel viaggio in Turchia. Sembra giusto (o almeno questo è il mio pensiero) riproporre un titolo che possa ricordare che lo stupro etnico, oltre Srebrenica, è stato l’atto peggiore di una guerra che segnerà per sempre 50.000 donne bosniache.

Per quanto riduttivo e difficile, è pensabile enumerare i danni del nazionalismo in Bosnia Erzegovina e fare nomi e cognomi?
I danni in Bosnia Erzegovina sono economici, ma soprattutto sociali con ripercussioni drammatiche su ogni campo della società civile. I più importanti riguardano il sistema scolastico, la rete culturale, la disoccupazione. Si potrebbe compilare un lungo elenco denso di criminali e manovalanza senza nazionalità, tuttavia le colpe principali vanno addebitate ai nazionalisti ideologicamente esasperati che hanno fomentato odio e divisioni senza curarsi della loro gente e mi riferisco a Slobodan Milošević, Franjo Tuđman e Alija Izetbegović.

Jovan Rašković è una figura chiave non solo del tuo libro ma dell’intera parabola del nazionalismo odierno e dello psiconazionalismo in Bosnia. Puoi raccontarci di questo psichiatra e spiegare quale ruolo lui e le sue teorie abbiano avuto nella guerra bosniaca del 1992-1995?
Jovan Rašković era una figura estremamente importante nel panorama politico ante guerra. Figura carismatica, capace di infuocare le folle con parole d’ordine pericolose, a lui si deve la creazione dello stato emozionale che ha permesso la mattanza bosniaca. Nei suoi seminari a Zagabria e a Belgrado era solito affermare che i tre gruppi nazionali non potevano coesistere in Bosnia Erzegovina e quindi bisognava provocare nella popolazione una sensazione di odio – tutti contro tutti – introducendo lo stato di “alterazione” permanente. In alcuni suoi corsi universitari, affollati all’inverosimile, si trattava anche della questione dello stupro etnico come difesa di un’etnia. Non era un modesto e ambiguo personaggio, come si vuol far credere colpevolmente, ma una figura preminente dello scenario balcanico non solo perché aveva creato il partito democratico serbo poi affidato a Radovan Karadžić, ma principalmente perché esprimeva concetti pericolosi utilizzando categorie psichiatriche applicate al tessuto sociale/politico, impiegando la psichiatria a supporto ideologico della pulizia etnica, finalizzata da criminali come Mladić e Arkan.

Il tuo è innanzitutto un libro di storia, ma ha suscitato interesse nel mondo della psichiatria? Con quali giudizi?
Fra storici e psichiatri non c’è una consuetudine di rapporti dialettici, non esiste uno scambio di informazioni, anzi molti medici tendono a rivendicare l’esclusività del loro “mestiere”. E anche per questo libro, a parte pochissime eccezioni, non ho avuto alcun aiuto dalla psichiatria ufficiale, per esempio nel reperire le fonti. Tuttavia poiché il libro è uscito da poche settimane, aspetto con curiosità le valutazioni degli psichiatri italiani e bosniaci.

Qual è lo stato dell’arte oggi, in Bosnia? Il nazionalismo è ancora così forte e così teoricamente e metodologicamente violento?
Paradossalmente il nazionalismo è più forte adesso che prima della guerra perché si è sedimentato nella mente della popolazione ed è questo l’effetto più vistoso dalla campagna ideologica ante guerra curata da personaggi come Rašković, una semina che ha messo radici nel tessuto sociale bosniaco.

Al di là – si fa per dire, ovviamente – delle colpe e delle immediate conseguenze dello psiconazionalismo nei Balcani, quali sono le conseguenze odierne? Con quali e quanti traumi le persone comuni si trovano a convivere? E in quale contesto?
Le conseguenze sono che il Paese è diviso profondamente con pochissime possibilità di un ritorno a quell’armonia sociale e culturale che era la caratteristica unica della Bosnia. Nel libro produco documenti che attestano un Paese “depresso” con una condizione psicologica molto sottovalutata, in primis dai responsabili politici bosniaci. Dai documenti in mio possesso c’è una correlazione allarmante tra livelli di traumi subiti durante la guerra e sintomi psicologici odierni (Dspt – ideazioni paranoiche – ansia – ostilità – depressione – psicoticismo – ansia fobica) con scarsa possibilità di essere curati. Pensiamo poi allo stato di salute dei bambini e alla difficoltà della cura in quanto in Bosnia manca la figura dello psicoterapeuta infantile. Il contesto generale è di difficoltà economica grave, mentre i fondi internazionali si sono riversati in mille rivoli senza mai arrivare alla popolazione. Un altro capitolo è lo stato di abbandono in cui versano la maggior parte delle donne che hanno subìto violenza etnica, assistite in maniera encomiabile da associazioni internazionali fra cui quella di Fadila Memišević, ma quasi completamente dimenticate dalla società bosniaca.

Potresti dare una valutazione, da storico, del perché non va abbassata l’attenzione sulla Bosnia e sui Balcani?
La storia della Bosnia Erzegovina ancora non è stata scritta. E se allo storico preme ragionare delle verità sgradevoli su cui vale la pena di riflettere o delle cattive cose nuove (per usare concetti brechtiani), allora bisogna tenere alta l’attenzione sulla Bosnia e sui Balcani in generale perché la guerra non è finita. Il conflitto continua nella mente delle persone, nei rapporti tra le nazionalità, perché Srebrenica, l’assedio di Sarajevo, la morte di tante persone, gli stupri etnici, lo smembramento di una nazione, sono stati rimossi dagli accordi di Dayton. La conferenza di pace ha lasciato intatti i presupposti per altre instabilità perché a Dayton la pulizia etnica e il genocidio furono accettati in un contesto internazionale, come se la tragedia bosniaca non fosse mai avvenuta.

Che cosa possiamo imparare noi italiani, così bravi a rimuovere le nostre colpe e le nostre responsabilità, dalla guerra e da dopoguerra bosniaco?
I politici italiani – nella stragrande maggioranza poco adatti al loro mandato – sottovalutano il ruolo della Lega Nord e le parole d’ordine separatiste, razziste e xenofobe pronunciate con un intento ben preciso in ogni intervista dai suoi dirigenti più radicali: far abituare le persone a quelle parole d’ordine. Sono concetti già sentiti nelle piazze della Serbia e della Croazia prima della guerra in Bosnia, quando si faceva leva sul sentimento di protezione psicologica collettiva contro l’inquinamento etnico e sulle corde emotive legate alla paura nei confronti dell’altro. Il passo all’odio estremo è stato lineare e la distruzione della Bosnia è ancora lì a testimonianza. Invito a leggere il libro di Jovan Rašković Luda Zemlja (Una nazione folle) perché in quelle pagine si ritroveranno molti discorsi della Lega Nord. Tenere alta l’attenzione sull’evoluzione di queste parole d’ordine e disinnescare la voglia di secessione è compito di ogni cittadino, di destra o di sinistra.

Radovan Karadžić sarà condannato e Mladić sarà finalmente catturato?
Per quanto riguarda Karadžić, credo che il patto scellerato sottoscritto con una parte dell’intelligence militare e politica che ha gestito la fine del conflitto e poi la sua cattura, lo salverà dall’ergastolo e sconterà i pochi anni di reclusione in un carcere/cottage, forse in Svezia come la presidentessa della Republica Srpska, Biljana Plavšic. È inquietante invece sapere che Mladić è un libero cittadino, si conosce il suo indirizzo, qualsiasi cosa della sua vita, ma che a tutt’oggi non si intravede alcuna possibilità di catturarlo. Quali le motivazioni? Cosa impedisce di trascinarlo all’Aja? Chi lo protegge a livello internazionale? Domande senza risposte, ma rimane il fatto che fino a quando non si porterà Mladić di fronte al Tpi dell’Aja non potrà iniziare la lunga fase della “rielaborazione del lutto” delle donne di Srebrenica.

Il Tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia potrà portare a termine il suo mandato o alla fine le potenze che siedono nel Consiglio di sicurezza dell’Onu come membri permanenti riusciranno a smontarlo pezzo per pezzo e a chiuderlo?
Il Tpi è un organismo sovranazionale con funzioni e autorità speciali che spesso si muove su linee di principio non sufficienti a obbligare gli Stati a farsi consegnare i criminali di guerra, come nel caso di Mladić. Il suo mandato scade nel 2014 e sebbene il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha ribadito che non cederà alcun processo alle corti nazionali e che si potrà continuare a ricercare i criminali di guerra (espressamente Mladić e Hadzić) ci sono così tanti documenti da esaminare che tre anni e mezzo sono assolutamente insufficienti a formulare giuste condanne. Alla fine del mandato i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, fatto salvo l’encomiabile lavoro dei giudici (molte volte sottovalutato) chiuderanno il sipario in fretta e probabilmente non rinnoveranno il mandato perché è evidente il contrasto tra l’essenza del Tpi e gli Stati nazionali, tra realpolitik e giuste aspettative delle popolazioni ad avere giustizia.