mercoledì 15 settembre 2010

Se “Mare di mezzo” siamo noi. Intervista a Gabriele Del Grande


IL MARE DI MEZZO di Gabriele Del Grande è la narrazione a opera di un autore ormai maturo di una vicenda vera, avvincente, di quelle che fanno trattenere il fiato dalla prima all’ultima pagina. Eppure Del Grande non scrive romanzi. Racconta fatti veri. Riporta fedelmente storie realmente vissute. Narra di vite che si accendono e si spengono sotto un cielo uguale per tutti, qualunque sia il colore della nostra pelle o comunque si chiami il dio che invochiamo.
“Il mare di mezzo” è una grande sfida editoriale ampiamente vinta, che ha acceso una luce nuova e inedita sul mondo delle migrazioni e su un’Italia che, volente o nolente – nonostante razzismo e xenofobia largamente elargiti da una classe politica impreparata e insufficiente – lentamente sta trasformandosi e sta diventando un Paese migliore, un Paese più ricco grazie all’incontro tra nuove culture, storie, visi. Di questa nuova sfida editoriale abbiamo parlato qui di seguito con Gabriele Del Grande.


Gabriele, qualche anno fa per gli addetti ai lavori il Mediterraneo era noto come “il Mare solido”, reso tale dal numero impressionante di ragazzi che, tentando la traversata, vi morivano. Ne hai parlato in MAMADOU VA A MORIRE, prima che partissero i pattugliamenti navali militari, che nascesse Frontex, che gli accordi Italia-Libia diventassero operativi a suon di soldi (dati dal contribuente italiano al colonnello Gheddafi). Ne IL MARE DI MEZZO vai molto oltre, cambi persino stile, e ti cimenti nel racconto di questo “Mare di Mezzo” ai tempi dei respingimenti. Che libro ne è scaturito e quale messaggio intendi lanciare attraverso il tuo lavoro?

Si tratta di due libri molto diversi. “Il mare di mezzo” è più maturo, ha alle spalle quattro anni di viaggi, di inchieste, di riflessioni, di incontri. Il materiale è molto più denso e le storie scelte con maggiore consapevolezza. E poi c'è questa attenzione nuova al linguaggio. L'idea è che quel mare solido di cui parli non fa più indignare nessuno perché quelle migliaia di morti non sono più uomini. Sono stati disumanizzati, prima di tutto attraverso il linguaggio. Il linguaggio della stampa, che ne ha rimosso le storie, le soggettività, e ha reso le persone oggetti di un discorso politico, capro espiatorio, massa amorfa. E allora la risposta a quel cinismo complice delle stragi del Mediterraneo è la scelta di raccontare, di riumanizzare le vittime dando loro un nome. Questa opera di restituzione dei nomi si accompagna a un'opera di censura di tutte le parole amorfe e burocratiche che ci hanno raccontato il Mediterraneo in questi anni: clandestini, profughi, rifugiati, immigrati, migranti, richiedenti asilo... L'intreccio di quelle storie fa la Storia, quella con la s maiuscola, quella di questi anni di razzismo e xenofobia istituzionalizzata che saranno in futuro studiati sui libri di testo come uno dei grandi mali dei primi anni duemila in Europa.


Il tuo lavoro ti ha fruttato premi, riconoscimenti, qualche nemico. Forse però il premio più grande è la riconoscenza delle persone di cui parli, di cui tramandi storie e drammi. Hai qualche storia, tra quelle raccontate nel libro, che tra le altre ti ha lasciato qualcosa in più dentro?
Questa è una domanda a cui non riesco mai a rispondere. Non riesco a scegliere tra le centinaia di persone che ho incontrato in questi anni. Ognuno porta con sé qualcosa di speciale. Il coraggio dei sindacalisti tunisini arrestati a Redeyef e poi giunti a Lampedusa. La fragile forza dei padri dei ragazzi di Annaba dispersi al largo della Sardegna. Il senso dell'avventura di quei due calciatori camerunesi espulsi dall'Algeria e tesserati da una squadra maliana per ripagarsi la traversata del deserto. Il senso di impotenza delle mogli di tanti uomini arrestati dopo una vita in Italia perché senza documenti e poi espulsi. La “complicità” con gli amici eritrei di Tripoli, impegnati come informatori del mio sito nonostante i guai che rischiano di passare con i servizi segreti eritrei e libici. L'ingenuità di certi contadini del Burkina Faso, mai stati nemmeno in capitale e partiti per l'Italia totalmente ignari dei pericoli che avrebbero incontrato. Le risate dei bimbi eritrei a Tripoli, che mi chiedo sempre se poi saranno mai arrivati in Italia e incrocio le dita per loro…


Per scrivere IL MARE DI MEZZO sei andato fino in Libia, Algeria, Tunisia. A Tunisi sei stato persino considerato visitatore non gradito e sei stato espulso, appena giunto in aeroporto. Come nasce questa vicenda e che cosa si prova?
Ero stato in Tunisia nell'ottobre 2008, a Redeyef, la città dei minatori in rivolta. C'erano stati morti in piazza, sindacalisti e giornalisti arrestati. La città era militarizzata, eppure con qualche buon contatto ero riuscito comunque a raggiungerla. Alla fine del lavoro venni intercettato e pedinato per giorni dalla polizia tunisina in borghese. Prima di tornare in Italia, per non correre rischi, decisi di distruggere tutto il materiale, non prima però di avere scannerizzato tutto per metterlo in salvo sulla rete. Un anno dopo, tornato a Tunisi, venni espulso, proprio per un articolo uscito su l'Unità sulle rivolte di Redeyef, evidentemente segnalato dall'ambasciata tunisina in Italia. Che effetto si prova? Diciamo che si capisce che cos'è la censura e quale sia il valore della libertà di stampa, che in Italia c'è ma nessuno usa...


In quale paese è più duro il trattamento dei migranti, tra Algeria, Libia e Tunisia?
Non lo so. Sono situazioni totalmente differenti. La particolarità della Libia è che dalla Libia, a differenza di Algeria e Tunisia, partono persone che non hanno la cittadinanza libica. La Libia è soltanto un corridoio di passaggio per l'Europa. Mentre da Algeria e Tunisia partono cittadini algerini e tunisini, che quindi riescono a muoversi molto più facilmente. La repressione poi in Libia si affianca alle durissime condizioni del regime carcerario, facilmente immaginabili in un Paese sotto regime da quarant’anni, dove abusi e torture sono parte integrante della cultura e della formazione delle forze di polizia, prima di tutto a danno dei detenuti libici, figurarsi dei detenuti stranieri. Poi, detto questo, non è che tutti i libici siano dei lupi mannari. Per una donna straniera violata in un carcere libico, c'è una studentessa africana iscritta all'università Fatah di Tripoli. Per un eritreo picchiato dal suo secondino ogni notte, c'è un sudanese con una boutique di sartoria nel cuore della Medina di Tripoli. Insomma la situazione al solito è molto complessa.


Tu hai visitato, tra i pochissimi, i lager in cui, con i soldi italiani, vengono detenuti in Libia, in condizioni spaventose, migliaia di migranti. Puoi descrivere quei luoghi e i carcerieri?
Nel libro c'è tutta una parte dedicata a questo. Le prime testimonianze le ho iniziate a raccogliere nella primavera del 2006, tra Roma e Bologna, intervistando gli eritrei che erano sbarcati a Lampedusa dalla Libia. Poi nel novembre 2008 riuscimmo per primi ad andare in Libia e a visitare i campi di Zlitan, Sebha e Misratah col collega tedesco Roman Herzog. Da allora esiste una rete di informatori in Libia che continua ad aggiornarmi su quanto accade nelle carceri oltremare dove sono detenuti in attesa di espulsione tutti gli emigrati fermati in mare dalle unità italiane (1.409 persone dall'inizio dei respingimenti nel maggio 2009) o arrestati durante le retate della polizia libica nei quartieri di Tripoli. Le condizioni fisiche di detenzione sono pessime: sporcizia, sovraffollamento, cibo scarso, acqua sporca, malattie. A questo si sommano gli abusi: umiliazioni continue, percosse, pestaggi, in alcuni casi torture, e per le donne è alto il rischio di subire violenze di tipo sessuale e in alcuni casi stupri. Il tutto avviene, come detto, in centri finanziati in parte dall'Italia e dall'Unione europea.


Secondo te, gli italiani hanno la consapevolezza degli abusi che, in nostro nome e con la nostra complicità, vengono inflitti a innocenti migranti in Paesi come la Libia o il lavaggio del cervello attraverso certi media sta dando i risultati sperati?
Molti italiani lo sanno. Penso ai 250.000 che nel 2009 hanno visitato il sito di Fortress Europe. Penso al milione di italiani che ha seguito la trasmissione “Respinti” di Riccardo Iacona, il 6 settembre 2009 su Rai 3, penso agli italiani che hanno seguito le 500 proiezioni del film documentario “Come un uomo sulla terra” e ai 18.000 che hanno firmato la petizione sulla Libia che poi abbiamo consegnato al Parlamento europeo. Ma restano una minoranza. La maggioranza degli italiani non sa niente. Si nutre di una narrazione completamente distorta del fenomeno, e qui torno alla prima risposta, ovvero alla necessità di costruire una diversa narrazione a partire dalle storie e dalla Storia. Non sanno niente o perché non si informano, oppure proprio perché si informano. I giornalisti infatti praticano da anni una pericolosissima forma di auto-censura sul tema. Un'auto-censura che è fatta di ignoranza, di senso comune, di pessima qualità del lavoro, di organizzazione del lavoro su ritmi talmente serrati che rendono impossibile l'approfondimento, di ossessione per il pollaio della politica da scranno. Se poi a tutto questo si aggiunge che in Italia il giornalismo di inchiesta se non è morto è moribondo... si capisce perché non esista una massa critica sul tema.


Perché l’Italia non si dota di una vera e umana politica in materia di migrazioni e, ancora di più, in materia di richiedenti asilo?
E perché l'Italia non si dota di una politica seria sulla droga? Sui diritti civili? Sulla laicità? La risposta è sempre la stessa. In termini elettorali non conviene essere pragmatici, ma ideologici. Non conviene risolvere i problemi ma alimentarli. Perché la paura e la retorica identitaria generano consenso. La ricetta è molto antica, ma attenzione perché nelle sue forme più moderne è sempre condita con dell'umanitarismo. Ad esempio la condizione dei rifugiati politici in Italia è molto migliorata negli ultimi anni. I tempi di attesa sono tra i più bassi in Europa, c'è un obbligo di prima accoglienza recepito con le direttive europee sull'asilo, c'è un ottimo sistema di seconda accoglienza (salvo la scarsità dei posti disponibili...), e le percentuali di riconoscimento della protezione internazionale sono tra le più elevate in Europa. Tutto questo però è stato possibile murando la frontiera, ovvero investendo affinché i rifugiati non arrivassero più! Con i respingimenti in Libia, i respingimenti in Grecia, e presto anche in Turchia. Insomma una botta al cerchio e una alla botte. Più diritti per i rifugiati, come dice l'Europa, ma meno rifugiati possibile, come dice la Lega. Poi, per concludere, c'è un'altra questione. Che è un'eredità coloniale e un corollario del capitalismo. Voglio dire che se anche un domani ci si dotasse di una migliore politica sull'immigrazione, il problema alla base resterebbe un altro. Ovvero, come mai gli Stati ricchi del mondo (e non solo l'Europa) ritengono legittimo impedire la circolazione nei propri Paesi dei cittadini degli Stati poveri? E come mai ne autorizzano l'ingresso soltanto se li ritengono produttivi, ovvero impiegabili nel proprio mercato del lavoro?


Come è possibile che l’Italia firmi accordi con la Libia per il trattenimento dei migranti quanto Tripoli non ha neppure firmato la Convenzione di Ginevra sul diritto d’asilo?
In realtà questo è un mero formalismo. L'Egitto ha firmato la Convenzione di Ginevra, ma questo non gli impedisce di sparare lungo la frontiera e uccidere a colpi di fuoco decine di rifugiati eritrei e etiopi ogni anno. Idem il Marocco, le cui forze di polizia tra il 2004 e il 2005 uccisero 17 persone a Ceuta e Melilla. Inoltre la Libia ha firmato la Carta africana dei diritti dell'uomo che in teoria contempla un diritto di asilo anche più ampio di quello previsto dall'Onu. Il punto è il rispetto sostanziale, non teorico, di quelle norme. Detto questo, Ginevra o Unione africana, all'Italia degli Amato e dei Maroni non importa niente. Sui respingimenti in Libia prevale una ragion politica – fare cessare gli sbarchi e guadagnare consenso elettorale – a una ragione del diritto – ovvero rispettare la Costituzione italiana, la legge sull'immigrazione, la Carta europea dei diritti umani e la Convenzione di Ginevra, che tutte vietano i respingimenti di quel tipo.


D. L’Onu e l’Acnur che fanno? E, direi di più, hanno ancora un senso o sono solo degli stipendifici attenti a non pestare i piedi ai governi?
Le Nazioni Unite, e quindi l’Alto comissariato dei rifugiati delle Nazioni Unite, sono prima di tutto un'associazione di Stati. Non bisogna dimenticarselo. E in questi casi hanno dimostrato di non avere nessun potere effettivo. Voglio dire che al di là delle critiche dell'Alto Commissario Guterres contro la Libia e l'Italia, non si è poi mosso niente. Anzi l'unica conseguenza a un certo punto è stata che la Libia ha espulso i funzionari dell'Acnur. Ma, in fondo, che cosa si doveva muovere se pensate che fino a pochi anni fa la Libia presiedeva addirittura la Commissione per i diritti umani dell'Onu? La cosa è molto contraddittoria in termini politici, senza nulla togliere ai tanti funzionari dell’Onu che lavorano sul territorio e in alcuni casi fanno un ottimo lavoro, come ho avuto modo di vedere io stesso anche qui in Italia. Sugli stipendi stenderei un velo pietoso... Come esiste la casta dei politici, esiste anche la casta dei funzionari Onu...


In futuro i migranti continueranno ad arrivare?
Non la porrei così... Altrimenti sembra che ci sia stato un glorioso passato in cui non arrivavano, un presente in cui sono arrivati, e un futuro incerto. Le migrazioni ci sono sempre state...da che mondo è mondo... Ci siamo mai chiesti da dove venga la ricchezza linguistica e culinaria italiana? Siamo stati attraversati da popoli di tutto il mondo, da millenni... E così sarà finché l'uomo avrà due gambe su cui camminare. La novità moderna è l'idea di poter gestire gli spostamenti delle persone attraverso una capillare selezione frontaliera in funzione di un massimo profitto economico. Per quanto riguarda l'Italia, poi, questo stesso governo tra la sanatoria del 2009 e i decreti flussi stagionali del 2009 e 2010 ha chiesto, in due anni, l'ingresso di 450.000 lavoratori stranieri! Per cui altroché se la gente continua ad arrivare! Sono i governi che continuano a richiedere manodopera straniera. In realtà la vera incognita sarà la crisi, inevitabilmente, nel senso che se la crisi continuerà a colpire, è facilmente ipotizzabile che diminuirà l'emigrazione verso il nostro Paese... La gente viaggia in cerca di opportunità...


E quale prevedi sarà la nostra risposta?
La nostra risposta? Ti dirò, se nel breve termine sono molto pessimista, nel lungo termine prevale l'ottimismo. L'Italia di domani è già nata. È l'Italia dei bimbi delle elementari e delle medie, che sono cresciuti con la diversità, imparando a leggerla. Imparando che un italiano può essere bianco e nero, ma che a definirlo è altro dalla pelle. E che un italiano può avere i genitori di un altro Paese, e può avere un legame speciale con quel Paese. Tutto questo a lungo andare diverrà normale, anche perché i sacrifici dei padri faranno sì che i figli studino, che facciano lavori meno umili, che si riscattino e si facciano rispettare più di quanto hanno fatto i padri, che questo Paese non l'hanno mai sentito loro, essendo arrivati qui come emigrati. Il punto però, al di là della convivenza con la diversità, è che piega prenderà il razzismo. Perché, vedi, ormai l'etnico va di moda. Il ristorante indiano o il low cost a Marrakesh è una roba all'ultimo grido. Ma mentre l'esotico diventa chic, allo stesso tempo cresce il razzismo, con una connotazione particolare, che sempre più colpisce i poveri. Il problema non sono gli imprenditori kirghizi, ma l'algerino senza casa che dorme al parco. E che risposta ci si è abituati a dare al problema? L'espulsione. L'espulsione della povertà. L'espulsione del disagio. L'espulsione degli emarginati. A me questa cultura spaventa. Perché sai dove comincia ma non capisci mai dove andrà a finire...