giovedì 30 settembre 2010

La Bosnia Erzegovina domenica 3 ottobre al voto



Domenica 3 ottobre i cittadini bosniaci vanno al voto per eleggere i membri della presidenza dello Stato bosniaco, i deputati della Camera dei Rappresentanti del Parlamento bosniaco, il presidente e il vice presidente della Republika Srpska, i deputati dei parlamenti della Republika Srpska e della Federazione di Bosnia Erzegovina, ovvero la cosiddetta Entità a maggioranza croato-musulmana, e i rappresentanti dei dieci consigli cantonali della Federazione stessa (la Republika Srpska non è infatti suddivisa in unità amministrative inferiori).
Lo Stato-Frankestein creato dai chirurghi folli di Dayton nel 1995, insomma, è chiamato a rifarsi il look, ma probabilmente solo quello, visto che difficilmente il Parlamento e la presidenza che verranno sapranno e vorranno dare la tanto attesa svolta positiva che il Paese aspetta da tre lustri. Destino della Bosnia anche nel quadriennio a venire, così, è di continuare a sperperare tra il 60 e il 70 per cento del bilancio pubblico per far funzionare una macchina istituzionale che prevede la presenza contemporanea – per governare e amministrare una popolazione di poco più di quattro milioni di esseri umani che vivono su una superficie pari alla somma di quelle di Piemonte e Sicilia – di due Entità e un distretto autonomo, con 13 Costituzioni, 14 governi con i rispettivi primi ministri, oltre un centinaio di ministri (tra Stato, Entità, cantoni e distretto), diverse magistrature e persino diversi regimi in materia di passaporto, poiché mentre da subito la liberalizzazione dei visti tra Ue, Serbia e Croazia ha permesso a serbo-bosniaci e croato-bosniaci – tutti dotati di doppio passaporto – di viaggiare liberamente, invece meno di due milioni di musulmani-bosniaci sono stati rinchiusi in una gabbia di acciaio burocratico quasi fossero fiere prigioniere di uno zoo vecchio e scrostato. Un magma totale.
A rimarcare la situazione di oggettiva difficoltà del Paese – la cui economia è ormai controllata da agenzie internazionali e governi esteri sia occidentali che orientali – ci sono le cifre di una campagna elettorale in cui si sono confrontati ben 39 partiti, 11 coalizioni e 13 candidati indipendenti alla presidenza. I candidati complessivi per le poltrone disponibili a vario livello istituzionale sono 8.149, il 37 per cento dei quali donne. E tutti costoro non saranno votati solo dai bosniaci che vivono in patria ma anche, sulla carta, da circa 1,2 milioni di aventi diritto che la guerra ha sparpagliato in quasi cento Paesi di tutto il mondo.
Come finirà? Come sempre è difficile fare previsioni. È probabile che ancora una volta il partito di maggioranza relativa risulti quello dell’astensionismo, sintomo di un Paese che non nutre più alcuna fiducia nei politici e che non vede prospettive diverse dalla corruzione, dalla povertà, dal dimenticatoio in cui la Bosnia è stata precipitata. Tra coloro che andranno alle urne è probabile che i partiti maggiormente votati saranno ancora una volta quello nazionalista musulmano Sda (Partito dell’azione democratica, Stranka Demokratske Akcije), quello serbo Sds (Partito democratico serbo, Srpska Demokratska Stranka) e quello croato Hdz (Unione democratica croata di Bosnia Erzegovina, Hrvatska demokratska zajednica Bosne i Hercegovine), con i primi due destinati ad avere ancora una volta un predominio numerico sul terzo, determinato dal numero più alto di appartenenti alla comunità musulmana e a quella ortodossa. Tra gli indipendenti, è molto atteso Nasa Stranka, il partito fondato dal premio Oscar per la regia Danis Tanović, da molti accusato di essere poco operativo, fumoso e intellettuale, nonostante abbia rappresentato una novità importante per gli stanchi e delusi bosniaci e alle amministrative del 2008 sia stato discretamente premiato.
C’è, tuttavia, una candidatura che potrebbe rappresentare una vera e propria rottura rispetto al passato. Una rottura non necessariamente salutare. È quella del miliardario musulmano Fahrudin Radončić, il potentissimo proprietario del quotidiano Avaz oltre che di una televisione e di un impero nel settore immobiliare e alberghiero. Annoiato dalla sua attività e dal mero esercizio del suo sterminato potere per sostenere questo o quel candidato – musulmano – il signor Avaz è tentato dal cesarismo, evidentemente non fine a se stesso, e potrebbe “scendere in campo” per dare il colpo finale a un Paese che di tutto ha bisogno fuorché del suo novello Silvio Berlusconi. I pericoli legati a una esposizione politica personale di Radončić sono enormi poiché si tratta di un populista in grado di far arrivare attraverso il giornale più letto e potente dell’intera Bosnia messaggi facili e promesse appetitose non solo alla maggioranza bosniaca ma all’intero Paese, e in particolare al popolo degli astensionisti e ai giovani, che agognano l’idea di un progetto politico alternativo che possa traghettare fuori dalla palude la Bosnia, approdando nel placido (ma assai melmoso) laghetto dell’Unione europea. Riuscirà Radončić ad attrarre una tipologia di elettori non facile da trovare in Bosnia, ovvero i “trasversali”. La grande novità di questa trasversalità sarebbe rappresentata da un messaggio chiaro inviato ai partiti nazionalisti, che lavorano instancabilmente per dividere il Paese e colpi di slogan carichi d’odio. Il populismo non è però meno pericoloso del nazionalismo.
Nessun dubbio, invece, sulla facile rielezione del nazionalista serbo-bosniaco Miroslav Dodik, miliardario primo ministro della Republika Srpska, l’uomo che periodicamente sventola il fantasma di una secessione che nessuno vuole, nell’area balcanica, a cominciare da quella Belgrado cui Dodik guarda ma che, a sua volta, ha accantonato il progetto di Grande Serbia per cullare quello molto più ambizioso e propositivo di entrare nell’Unione europea. È evidente che i grandi investitori stranieri – come l’italiana Fiat – che vanno a produrre a bassissimi costi del personale chiedano e pretendano stabilità e politica filo-europeista a Belgrado. E in Serbia alla secessione della Republika Srpska dalla Bosnia Erzegovina e a una successiva unificazione tra Belgrado e Banja Luka ormai pensano “seriamente” solo gli ubriachi di rakija durante le grigliate in riva ai fiumi.

Le date (alcune ancora provvisorie) delle presentazioni di BOSNIA EXPRESS:

Settembre:
- giovedì 30settembre, ROMA, Piazza dell'Immacolata (quartiere San Lorenzo), nell'ambito dell'iniziativa San Lorenzo in piazza, ore 18,30. Intervengono con l'autore Francesco De Filippo (scrittore e giornalista), Riccardo Noury (portavoce Amnesty International), Enisa Bukvic (scrittrice, rappresentante della diaspora bosniaca in Italia).

Ottobre:
- mercoledì 6 ottobre ROMA, Amnesty International, sede nazionale, via G.B. De Rossi, ore 11,00, presentazione per attivisti e volontari alla presenza del nuovo segretario generale di Amnesty International; modera Riccardo Noury;
- venerdì 15 ottobre, ANCONA, Casa delle Culture, via Vallemiano 46, ore 18,00, con Amnesty International, modera Paolo Pignocchi;
- sabato 16 ottobre, SAN BENEDETTO DEL TRONTO, con Paolo Pignocchi (Amnesty International), in via di definizione.

Novembre:
- mercoledì 3 novembre, MILANO, Libreria del Mondo Offeso - C.so Garibaldi 50, ore 19,00;
- giovedì 4 novembre, CISLIANO(MI), Frazione Bestazzo, ore 21,00;
- venerdì 5 novembre, SEDRIANO(MI), via Rogerio da Sedriano, ore 21,00;
- sabato 6 novembre SARONNO (VA), Libreria Pagina 18, Via G. Verdi 18, ore 17,30;
- venerdì 19 novembre, GIULIANOVA, Circolo Virtuoso Il nome della rosa, via Gramsci 46/a, ore 21,00, modera Simone Gambacorta;
- sabato 20 novembre, PESCARA, in via di definizione;
- venerdì 26 novembre, CASTELLARANO (RE), con Francesco Zarzana, in via di definizione, ore 21,00;
- 27 novembre, MODENA, presentazione + incontro pubblico con Emergency, in via di definizione.

Dicembre:
- mercoledì 15 dicembre, ROMA, Teatro Le Salette, vicolo del campanile 14 (Borgo Pio), ore 20,30

martedì 28 settembre 2010

BOSNIA EXPRESS - Le prime date del tour di presentazione



Cari amici,
ecco una prima lista di presentazioni organizzate o in corso di organizzazione per poterci incontrare e parlare di Bosnia attraverso il mio nuovo lavoro BOSNIA EXPRESS. Correggerò le date in tempo reale, appena avrò aggiornamenti. Nel frattempo, se interessati, vi invito a prendere nota. Seguiranno altre date tra la fine del 2010 e, sopratuttto, la prima metà del 2011.
La presentazione di un libro è sempre un momento bellissimo d'incontro con il pubblico, durante il quale confrontarsi con le esperienze di persone dal vissuto più diverso. E' anche un rischio, perché molto spesso vengono a interagire persone che non hanno letto il tuo lavoro e che si basano, per giudicarlo (e giudicarti), sul poco che di quel lavoro è possibile raccontare dal vivo. Ciò nonostante, ogni appuntamento è una bellissima esperienza, un'esperienza di crescita umana oltre che professionale, per tutti coloro che intervengono. Questa, almeno, è sempre stata la mia sensazione nei dieci anni circa in cui ho avuto l'onore e la fortuna di poter presentare in pubblico - nelle situazioni più disparate - il mio lavoro.
Vi aspetto, insomma, a cominciare dalla "prima" del 30 settembre, a Roma, cui seguirà l'unica - per ora - data "privata", dedicata agli operatori e ai volontari di Amnesty International Italia.
Che aggiungere?
Grazie mille e spero di vedervi in presentazione.

Le date (molte ancora provvisorie) del tour:

Settembre:
- giovedì 30settembre, ROMA, Piazza dell'Immacolata (quartiere San Lorenzo), nell'ambito dell'iniziativa San Lorenzo in piazza, ore 18,30. Intervengono con l'autore Francesco De Filippo (scrittore e giornalista), Riccardo Noury (portavoce Amnesty International), Enisa Bukvic (scrittrice, rappresentante della diaspora bosniaca in Italia).

Ottobre:
- mercoledì 6 ottobre ROMA, Amnesty International, sede nazionale, via G.B. De Rossi, ore 11,00, presentazione per attivisti e volontari alla presenza del nuovo segretario generale di Amnesty International; modera Riccardo Noury;
- venerdì 15 ottobre, ANCONA, Casa delle Culture, via Vallemiano 46, ore 18,00, con Amnesty International, modera Paolo Pignocchi;
- sabato 16 ottobre, SAN BENEDETTO DEL TRONTO, con Paolo Pignocchi (Amnesty International), in via di definizione.

Novembre:
- mercoledì 3 novembre, MILANO, Libreria del Mondo Offeso - C.so Garibaldi 50, ore 19,00;
- giovedì 4 novembre, CISLIANO(MI), Frazione Bestazzo, ore 21,00;
- venerdì 5 novembre, SEDRIANO(MI), via Rogerio da Sedriano, ore 21,00;
- sabato 6 novembre SARONNO (VA), Libreria Pagina 18, Via G. Verdi 18, ore 17,30;
- venerdì 19 novembre, GIULIANOVA, Circolo Virtuoso Il nome della rosa, via Gramsci 46/a, ore 21,00, modera Simone Gambacorta;
- sabato 20 novembre, PESCARA, in via di definizione;
- venerdì 26 novembre, CASTELLARANO (RE), con Francesco Zarzana, in via di definizione, ore 21,00;
- 27 novembre, MODENA, presentazione + incontro pubblico con Emergency, in via di definizione.

Dicembre:
- mercoledì 15 dicembre, ROMA, Teatro Le Salette, vicolo del campanile 14 (Borgo Pio), ore 20,30

venerdì 24 settembre 2010

BOSNIA EXPRESS - da inizio ottobre in libreria


La casa editrice

Infinito edizioni

presenta il nuovo libro

BOSNIA EXPRESS
Politica, religione, nazionalismo, mafia e povertà in quel che resta della Porta d’Oriente

(pag. 160, € 12)

di LUCA LEONE

Prefazione di Sabina Langer
Introduzione di Riccardo Noury
Presentazione di Francesco De Filippo
Postfazione di Enisa Bukvic

Un viaggio che vi farà conoscere un Paese incredibile

Un dopoguerra interminabile, quello della Bosnia Erzegovina.
Oggi, tre lustri dopo, il Paese è in mano a politici corrotti, alle mafie che ripuliscono il denaro sporco nel settore immobiliare e nelle banche occidentali e arabe, a gruppi stranieri che giorno dopo giorno esigono il pagamento di un dazio infinito, il cui peso ha avuto origine nella guerra del 1991-1995.

Bosnia Express è il viaggio in un Paese deragliato, con un ritardo strutturale di quarant’anni, ridotto economicamente e culturalmente in ginocchio e squassato dai nazionalismi e dalle contrapposizioni di credo, ma ciò nonostante capace di destare molti appetiti. E di sorprendere.

“Luca Leone non ci consegna un libro, ci dà uno schiaffo. Lui che bosniaco non è ha il candore di indignarsi ancora davanti alle fosse comuni terziarie di Srebrenica, di arrabbiarsi per le scorie tossiche colate a picco dai francesi nel lago di Buško, di commuoversi davanti alla splendida natura bosniaca, anche se ancora da sminare e forse solo per questo non contaminata, appiattita sotto una coltre di malta, strappata per far largo a torri di hotel”. (Francesco De Filippo)

“L’espressione o lo stato d’animo di Luca Leone è quello del disinganno, della disillusione nei confronti di un Paese che ha girato le spalle a se stesso, in un post-conflitto nel quale denaro, successo e crimine hanno rapidamente preso il posto della giustizia, della verità e della solidarietà”. (Riccardo Noury)

"Vi consiglio di leggere questo libro, perché parla di un Paese speciale, la Bosnia Erzegovina, ed è scritto da una persona speciale". (Enisa Bukvić)


Con il patrocinio di Amnesty International, Arci, Ipsia di Milano, Adl-Zavidovici, Associazione per i popoli minacciati, Adottando, Fondazione Alexander Langer, Macondo3, Molisesorriso, Pl@netnoprofit.


LA "PRIMA" DEL LIBRO SI SVOLGERA' IL 30 SETTEMBRE A ROMA, Piazza dell’Immacolata, San Lorenzo, ore 18,30 (con Francesco De Filippo, Riccardo Noury, Enisa Bukvic). Vi aspetto!


L’autore
Luca Leone, giornalista e saggista, laureato in scienze politiche, è nato nel 1970 ad Albano Laziale (Roma). Ha scritto e scrive per diverse testate. Ha firmato, tra gli altri, i saggi Il fantasma in Europa. La Bosnia del dopo Dayton tra decadenza e ipotesi di sviluppo, Il Segno, 2004; Anatomia di un fallimento. Centri di permanenza temporanea e assistenza (a cura di), Sinnos, 2004; Srebrenica. I giorni della vergogna, Infinito edizioni, 2005 (tre edizioni); Uomini e belve. Storie dai Sud del mondo, Infinito edizioni, 2008.


Per informazioni, interviste e organizzare presentazioni:
Infinito edizioni: 06 93162414
320 3524918 (Maria Cecilia Castagna)
340/9131468 (Serena Rossi)
info@infinitoedizioni.it
www.infinitoedizioni.it

mercoledì 15 settembre 2010

Se “Mare di mezzo” siamo noi. Intervista a Gabriele Del Grande


IL MARE DI MEZZO di Gabriele Del Grande è la narrazione a opera di un autore ormai maturo di una vicenda vera, avvincente, di quelle che fanno trattenere il fiato dalla prima all’ultima pagina. Eppure Del Grande non scrive romanzi. Racconta fatti veri. Riporta fedelmente storie realmente vissute. Narra di vite che si accendono e si spengono sotto un cielo uguale per tutti, qualunque sia il colore della nostra pelle o comunque si chiami il dio che invochiamo.
“Il mare di mezzo” è una grande sfida editoriale ampiamente vinta, che ha acceso una luce nuova e inedita sul mondo delle migrazioni e su un’Italia che, volente o nolente – nonostante razzismo e xenofobia largamente elargiti da una classe politica impreparata e insufficiente – lentamente sta trasformandosi e sta diventando un Paese migliore, un Paese più ricco grazie all’incontro tra nuove culture, storie, visi. Di questa nuova sfida editoriale abbiamo parlato qui di seguito con Gabriele Del Grande.


Gabriele, qualche anno fa per gli addetti ai lavori il Mediterraneo era noto come “il Mare solido”, reso tale dal numero impressionante di ragazzi che, tentando la traversata, vi morivano. Ne hai parlato in MAMADOU VA A MORIRE, prima che partissero i pattugliamenti navali militari, che nascesse Frontex, che gli accordi Italia-Libia diventassero operativi a suon di soldi (dati dal contribuente italiano al colonnello Gheddafi). Ne IL MARE DI MEZZO vai molto oltre, cambi persino stile, e ti cimenti nel racconto di questo “Mare di Mezzo” ai tempi dei respingimenti. Che libro ne è scaturito e quale messaggio intendi lanciare attraverso il tuo lavoro?

Si tratta di due libri molto diversi. “Il mare di mezzo” è più maturo, ha alle spalle quattro anni di viaggi, di inchieste, di riflessioni, di incontri. Il materiale è molto più denso e le storie scelte con maggiore consapevolezza. E poi c'è questa attenzione nuova al linguaggio. L'idea è che quel mare solido di cui parli non fa più indignare nessuno perché quelle migliaia di morti non sono più uomini. Sono stati disumanizzati, prima di tutto attraverso il linguaggio. Il linguaggio della stampa, che ne ha rimosso le storie, le soggettività, e ha reso le persone oggetti di un discorso politico, capro espiatorio, massa amorfa. E allora la risposta a quel cinismo complice delle stragi del Mediterraneo è la scelta di raccontare, di riumanizzare le vittime dando loro un nome. Questa opera di restituzione dei nomi si accompagna a un'opera di censura di tutte le parole amorfe e burocratiche che ci hanno raccontato il Mediterraneo in questi anni: clandestini, profughi, rifugiati, immigrati, migranti, richiedenti asilo... L'intreccio di quelle storie fa la Storia, quella con la s maiuscola, quella di questi anni di razzismo e xenofobia istituzionalizzata che saranno in futuro studiati sui libri di testo come uno dei grandi mali dei primi anni duemila in Europa.


Il tuo lavoro ti ha fruttato premi, riconoscimenti, qualche nemico. Forse però il premio più grande è la riconoscenza delle persone di cui parli, di cui tramandi storie e drammi. Hai qualche storia, tra quelle raccontate nel libro, che tra le altre ti ha lasciato qualcosa in più dentro?
Questa è una domanda a cui non riesco mai a rispondere. Non riesco a scegliere tra le centinaia di persone che ho incontrato in questi anni. Ognuno porta con sé qualcosa di speciale. Il coraggio dei sindacalisti tunisini arrestati a Redeyef e poi giunti a Lampedusa. La fragile forza dei padri dei ragazzi di Annaba dispersi al largo della Sardegna. Il senso dell'avventura di quei due calciatori camerunesi espulsi dall'Algeria e tesserati da una squadra maliana per ripagarsi la traversata del deserto. Il senso di impotenza delle mogli di tanti uomini arrestati dopo una vita in Italia perché senza documenti e poi espulsi. La “complicità” con gli amici eritrei di Tripoli, impegnati come informatori del mio sito nonostante i guai che rischiano di passare con i servizi segreti eritrei e libici. L'ingenuità di certi contadini del Burkina Faso, mai stati nemmeno in capitale e partiti per l'Italia totalmente ignari dei pericoli che avrebbero incontrato. Le risate dei bimbi eritrei a Tripoli, che mi chiedo sempre se poi saranno mai arrivati in Italia e incrocio le dita per loro…


Per scrivere IL MARE DI MEZZO sei andato fino in Libia, Algeria, Tunisia. A Tunisi sei stato persino considerato visitatore non gradito e sei stato espulso, appena giunto in aeroporto. Come nasce questa vicenda e che cosa si prova?
Ero stato in Tunisia nell'ottobre 2008, a Redeyef, la città dei minatori in rivolta. C'erano stati morti in piazza, sindacalisti e giornalisti arrestati. La città era militarizzata, eppure con qualche buon contatto ero riuscito comunque a raggiungerla. Alla fine del lavoro venni intercettato e pedinato per giorni dalla polizia tunisina in borghese. Prima di tornare in Italia, per non correre rischi, decisi di distruggere tutto il materiale, non prima però di avere scannerizzato tutto per metterlo in salvo sulla rete. Un anno dopo, tornato a Tunisi, venni espulso, proprio per un articolo uscito su l'Unità sulle rivolte di Redeyef, evidentemente segnalato dall'ambasciata tunisina in Italia. Che effetto si prova? Diciamo che si capisce che cos'è la censura e quale sia il valore della libertà di stampa, che in Italia c'è ma nessuno usa...


In quale paese è più duro il trattamento dei migranti, tra Algeria, Libia e Tunisia?
Non lo so. Sono situazioni totalmente differenti. La particolarità della Libia è che dalla Libia, a differenza di Algeria e Tunisia, partono persone che non hanno la cittadinanza libica. La Libia è soltanto un corridoio di passaggio per l'Europa. Mentre da Algeria e Tunisia partono cittadini algerini e tunisini, che quindi riescono a muoversi molto più facilmente. La repressione poi in Libia si affianca alle durissime condizioni del regime carcerario, facilmente immaginabili in un Paese sotto regime da quarant’anni, dove abusi e torture sono parte integrante della cultura e della formazione delle forze di polizia, prima di tutto a danno dei detenuti libici, figurarsi dei detenuti stranieri. Poi, detto questo, non è che tutti i libici siano dei lupi mannari. Per una donna straniera violata in un carcere libico, c'è una studentessa africana iscritta all'università Fatah di Tripoli. Per un eritreo picchiato dal suo secondino ogni notte, c'è un sudanese con una boutique di sartoria nel cuore della Medina di Tripoli. Insomma la situazione al solito è molto complessa.


Tu hai visitato, tra i pochissimi, i lager in cui, con i soldi italiani, vengono detenuti in Libia, in condizioni spaventose, migliaia di migranti. Puoi descrivere quei luoghi e i carcerieri?
Nel libro c'è tutta una parte dedicata a questo. Le prime testimonianze le ho iniziate a raccogliere nella primavera del 2006, tra Roma e Bologna, intervistando gli eritrei che erano sbarcati a Lampedusa dalla Libia. Poi nel novembre 2008 riuscimmo per primi ad andare in Libia e a visitare i campi di Zlitan, Sebha e Misratah col collega tedesco Roman Herzog. Da allora esiste una rete di informatori in Libia che continua ad aggiornarmi su quanto accade nelle carceri oltremare dove sono detenuti in attesa di espulsione tutti gli emigrati fermati in mare dalle unità italiane (1.409 persone dall'inizio dei respingimenti nel maggio 2009) o arrestati durante le retate della polizia libica nei quartieri di Tripoli. Le condizioni fisiche di detenzione sono pessime: sporcizia, sovraffollamento, cibo scarso, acqua sporca, malattie. A questo si sommano gli abusi: umiliazioni continue, percosse, pestaggi, in alcuni casi torture, e per le donne è alto il rischio di subire violenze di tipo sessuale e in alcuni casi stupri. Il tutto avviene, come detto, in centri finanziati in parte dall'Italia e dall'Unione europea.


Secondo te, gli italiani hanno la consapevolezza degli abusi che, in nostro nome e con la nostra complicità, vengono inflitti a innocenti migranti in Paesi come la Libia o il lavaggio del cervello attraverso certi media sta dando i risultati sperati?
Molti italiani lo sanno. Penso ai 250.000 che nel 2009 hanno visitato il sito di Fortress Europe. Penso al milione di italiani che ha seguito la trasmissione “Respinti” di Riccardo Iacona, il 6 settembre 2009 su Rai 3, penso agli italiani che hanno seguito le 500 proiezioni del film documentario “Come un uomo sulla terra” e ai 18.000 che hanno firmato la petizione sulla Libia che poi abbiamo consegnato al Parlamento europeo. Ma restano una minoranza. La maggioranza degli italiani non sa niente. Si nutre di una narrazione completamente distorta del fenomeno, e qui torno alla prima risposta, ovvero alla necessità di costruire una diversa narrazione a partire dalle storie e dalla Storia. Non sanno niente o perché non si informano, oppure proprio perché si informano. I giornalisti infatti praticano da anni una pericolosissima forma di auto-censura sul tema. Un'auto-censura che è fatta di ignoranza, di senso comune, di pessima qualità del lavoro, di organizzazione del lavoro su ritmi talmente serrati che rendono impossibile l'approfondimento, di ossessione per il pollaio della politica da scranno. Se poi a tutto questo si aggiunge che in Italia il giornalismo di inchiesta se non è morto è moribondo... si capisce perché non esista una massa critica sul tema.


Perché l’Italia non si dota di una vera e umana politica in materia di migrazioni e, ancora di più, in materia di richiedenti asilo?
E perché l'Italia non si dota di una politica seria sulla droga? Sui diritti civili? Sulla laicità? La risposta è sempre la stessa. In termini elettorali non conviene essere pragmatici, ma ideologici. Non conviene risolvere i problemi ma alimentarli. Perché la paura e la retorica identitaria generano consenso. La ricetta è molto antica, ma attenzione perché nelle sue forme più moderne è sempre condita con dell'umanitarismo. Ad esempio la condizione dei rifugiati politici in Italia è molto migliorata negli ultimi anni. I tempi di attesa sono tra i più bassi in Europa, c'è un obbligo di prima accoglienza recepito con le direttive europee sull'asilo, c'è un ottimo sistema di seconda accoglienza (salvo la scarsità dei posti disponibili...), e le percentuali di riconoscimento della protezione internazionale sono tra le più elevate in Europa. Tutto questo però è stato possibile murando la frontiera, ovvero investendo affinché i rifugiati non arrivassero più! Con i respingimenti in Libia, i respingimenti in Grecia, e presto anche in Turchia. Insomma una botta al cerchio e una alla botte. Più diritti per i rifugiati, come dice l'Europa, ma meno rifugiati possibile, come dice la Lega. Poi, per concludere, c'è un'altra questione. Che è un'eredità coloniale e un corollario del capitalismo. Voglio dire che se anche un domani ci si dotasse di una migliore politica sull'immigrazione, il problema alla base resterebbe un altro. Ovvero, come mai gli Stati ricchi del mondo (e non solo l'Europa) ritengono legittimo impedire la circolazione nei propri Paesi dei cittadini degli Stati poveri? E come mai ne autorizzano l'ingresso soltanto se li ritengono produttivi, ovvero impiegabili nel proprio mercato del lavoro?


Come è possibile che l’Italia firmi accordi con la Libia per il trattenimento dei migranti quanto Tripoli non ha neppure firmato la Convenzione di Ginevra sul diritto d’asilo?
In realtà questo è un mero formalismo. L'Egitto ha firmato la Convenzione di Ginevra, ma questo non gli impedisce di sparare lungo la frontiera e uccidere a colpi di fuoco decine di rifugiati eritrei e etiopi ogni anno. Idem il Marocco, le cui forze di polizia tra il 2004 e il 2005 uccisero 17 persone a Ceuta e Melilla. Inoltre la Libia ha firmato la Carta africana dei diritti dell'uomo che in teoria contempla un diritto di asilo anche più ampio di quello previsto dall'Onu. Il punto è il rispetto sostanziale, non teorico, di quelle norme. Detto questo, Ginevra o Unione africana, all'Italia degli Amato e dei Maroni non importa niente. Sui respingimenti in Libia prevale una ragion politica – fare cessare gli sbarchi e guadagnare consenso elettorale – a una ragione del diritto – ovvero rispettare la Costituzione italiana, la legge sull'immigrazione, la Carta europea dei diritti umani e la Convenzione di Ginevra, che tutte vietano i respingimenti di quel tipo.


D. L’Onu e l’Acnur che fanno? E, direi di più, hanno ancora un senso o sono solo degli stipendifici attenti a non pestare i piedi ai governi?
Le Nazioni Unite, e quindi l’Alto comissariato dei rifugiati delle Nazioni Unite, sono prima di tutto un'associazione di Stati. Non bisogna dimenticarselo. E in questi casi hanno dimostrato di non avere nessun potere effettivo. Voglio dire che al di là delle critiche dell'Alto Commissario Guterres contro la Libia e l'Italia, non si è poi mosso niente. Anzi l'unica conseguenza a un certo punto è stata che la Libia ha espulso i funzionari dell'Acnur. Ma, in fondo, che cosa si doveva muovere se pensate che fino a pochi anni fa la Libia presiedeva addirittura la Commissione per i diritti umani dell'Onu? La cosa è molto contraddittoria in termini politici, senza nulla togliere ai tanti funzionari dell’Onu che lavorano sul territorio e in alcuni casi fanno un ottimo lavoro, come ho avuto modo di vedere io stesso anche qui in Italia. Sugli stipendi stenderei un velo pietoso... Come esiste la casta dei politici, esiste anche la casta dei funzionari Onu...


In futuro i migranti continueranno ad arrivare?
Non la porrei così... Altrimenti sembra che ci sia stato un glorioso passato in cui non arrivavano, un presente in cui sono arrivati, e un futuro incerto. Le migrazioni ci sono sempre state...da che mondo è mondo... Ci siamo mai chiesti da dove venga la ricchezza linguistica e culinaria italiana? Siamo stati attraversati da popoli di tutto il mondo, da millenni... E così sarà finché l'uomo avrà due gambe su cui camminare. La novità moderna è l'idea di poter gestire gli spostamenti delle persone attraverso una capillare selezione frontaliera in funzione di un massimo profitto economico. Per quanto riguarda l'Italia, poi, questo stesso governo tra la sanatoria del 2009 e i decreti flussi stagionali del 2009 e 2010 ha chiesto, in due anni, l'ingresso di 450.000 lavoratori stranieri! Per cui altroché se la gente continua ad arrivare! Sono i governi che continuano a richiedere manodopera straniera. In realtà la vera incognita sarà la crisi, inevitabilmente, nel senso che se la crisi continuerà a colpire, è facilmente ipotizzabile che diminuirà l'emigrazione verso il nostro Paese... La gente viaggia in cerca di opportunità...


E quale prevedi sarà la nostra risposta?
La nostra risposta? Ti dirò, se nel breve termine sono molto pessimista, nel lungo termine prevale l'ottimismo. L'Italia di domani è già nata. È l'Italia dei bimbi delle elementari e delle medie, che sono cresciuti con la diversità, imparando a leggerla. Imparando che un italiano può essere bianco e nero, ma che a definirlo è altro dalla pelle. E che un italiano può avere i genitori di un altro Paese, e può avere un legame speciale con quel Paese. Tutto questo a lungo andare diverrà normale, anche perché i sacrifici dei padri faranno sì che i figli studino, che facciano lavori meno umili, che si riscattino e si facciano rispettare più di quanto hanno fatto i padri, che questo Paese non l'hanno mai sentito loro, essendo arrivati qui come emigrati. Il punto però, al di là della convivenza con la diversità, è che piega prenderà il razzismo. Perché, vedi, ormai l'etnico va di moda. Il ristorante indiano o il low cost a Marrakesh è una roba all'ultimo grido. Ma mentre l'esotico diventa chic, allo stesso tempo cresce il razzismo, con una connotazione particolare, che sempre più colpisce i poveri. Il problema non sono gli imprenditori kirghizi, ma l'algerino senza casa che dorme al parco. E che risposta ci si è abituati a dare al problema? L'espulsione. L'espulsione della povertà. L'espulsione del disagio. L'espulsione degli emarginati. A me questa cultura spaventa. Perché sai dove comincia ma non capisci mai dove andrà a finire...

giovedì 2 settembre 2010

Quel misterioso, unico, appassionante ultimo quadro del grande Vincent van Gogh


“Dalla cornice non si scappa, anzi più ti avvicini più perdi il centro della scena. La cornice è la demarcazione secca e definitiva fra quello che c’è e quello che ci sarebbe potuto essere. Dentro sei eterno e prigioniero, fuori sei libero ma effimero... Da che parte sta l’arte?”.
È, questo, uno dei passaggi letterari presenti ne L’ULTIMO QUADRO DI VAN GOGH, ultima fatica letteraria e musicale di Alan Zamboni, poliedrico e geniale musicista e scrittore bresciano, autore per Infinito edizioni di un cofanetto (libro + cd musicale inedito, a soli 15 euro) dedicato alla figura di Vincent van Gogh nel centoventesimo anniversario della sua morte.

Luglio 1891, Auvers-sur-Oise. Un misterioso personaggio prende alloggio presso la locanda Ravoux, dove un anno prima è morto Vincent van Gogh. Da subito dimostra un insolito interesse sugli ultimi istanti di vita del pittore. Chi è quest’uomo? Cosa sta cercando con tanta ostinazione?

Ne ho parlato con Alan Zamboni, appassionato studioso dell’opera di Vincent.


Alan, nel tuo nuovo lavoro intitolato L’ULTIMO QUADRO DI VAN GOGH musica, narrativa e pittura si fondono dando vita a un omaggio di grande profondità alla figura e alla persona di Vincent van Gogh. Puoi raccontarci la genesi del progetto e le finalità di questo cofanetto contenente un libro e un cd musicale inedito?
Il progetto non nasce come tale, ma inizialmente c’è solo una grande passione per l’opera di Vincent van Gogh, prima quella pittorica, poi, in un secondo momento (quando Angel Galzerano mi apre gli occhi) anche verso quella letteraria. Con Angel condividiamo questo entusiasmo e così nasce la “Murga de Vincent”, una canzone con un ritmo uruguayano, un testo in italiano che parla di un pittore olandese, il quale ha operato soprattutto in Francia. Avevamo davanti un mappamondo! Perdere i confini geografici è stato di grande aiuto per perdere poi quelli ancor più radicati tra pittura, letteratura e musica. Nel frattempo ho continuato i miei studi su Vincent; il contatto continuo con la vita, le parole e le immagini di quest’artista ha probabilmente generato l’idea del romanzo. Da lì in poi è stato come vivere un momento magico in cui collaborando anche con Gianmarco Astori e Anna Maria Di Lena sono nati tutti gli elementi che compongono questo lavoro, un lavoro che io vedo e percepisco come un “unicum” ma che è il risultato di tre abiti con i quali a volte e in momenti diversi mi capita di travestirmi: quello del musicista, quello dello scrittore e quello del ricercatore.
La finalità del progetto è quella di un omaggio a un artista che tuttora continua a insegnare cosa significa essere “artisti”. Van Gogh è un pittore che ci ha detto con parole e quadri che il vero grande obiettivo dell’uomo sulla terra è quello di lasciarla un po’ più bella di come l’ha trovata. Credo sia utile ricordarcelo…


Che cosa ti ha colpito di più di Vincent e quando?
Mi ha colpito un suo autoritratto perché è stato il primo quadro che ho visto dal vivo. Non sapevo fosse di van Gogh... Semplicemente sono passato da una stanza all’altra del Musée d’Orsay e, girandomi, mi sono imbattuto in quel viso. È stato come ricevere un pugno in pancia, ho fatto due passi indietro e poi mi sono avvicinato incuriosito per vedere cosa c’era scritto sull’etichetta accanto al dipinto. Van Gogh fino ad allora l’avevo evitato, infastidito dalle continue notizie sulle cifre miliardarie a cui venivano venduti i suoi quadri nelle aste alla fine degli anni Ottanta fino alla famosa vendita del “Ritratto del dottor Gachet” nel maggio 1990 (82,5 milioni di dollari!)...e così per “rappresaglia” non mi ero mai interessato alla sua opera.
Vedere i suoi dipinti davanti a me è stata un’emozione non descrivibile a parole...infatti anche il protagonista del mio libro non si esprime mai in merito alle opere.
Quando anni dopo ho letto le sue lettere mi ha colpito l’incredibile lucidità nell’esprimere concetti di alto profilo (non va dimenticato che le sue lettere non erano scritte per essere pubblicate ma facevano parte di una corrispondenza ordinaria). Resto sempre affascinato dalle persone che hanno un’innata capacità di analisi e una simbiosi perfetta fra arte e vita.


Per scrivere il libro e comporre musiche e testi del disco VINCENT, allegato al libro, hai visitato i luoghi in cui Vincent ha vissuto le ultime settimane della sua vita e in cui, sparandosi, è morto. Quali sensazioni ti hanno lasciato quei posti?
I luoghi sono sempre illuminati dalla luce del presente che fa sì che lascino delle ombre spesso nitide...quelle sono il loro passato. Quando ho viaggiato ad Arles, Saint-Remy, Auvers-sur-Oise, anche se può sembrare paradossale, ho cercato di scoprire attraverso i quadri di Vincent ciò che quei luoghi diventeranno un giorno, perché nelle sue tele c’è la storia passata, presente ma soprattutto quella futura di ciò che ha dipinto. La capacità dell’artista è quella di cogliere avanti...sempre un po’ più avanti... È il fascino dello slancio.


Quali sono le difficoltà di incidere un concept album da indipendente in un Paese dominato dai favoritismi e da un mercato piuttosto crudele come quello italiano?
Incidere un concept album è già di per sé un compito difficile, si rischia di sembrare presuntuosi. Anche per questo abbiamo cercato di lavorarvi mantenendo come linee guida un profondo rispetto verso l’artista. L’esperienza è stata per me affascinante perché ho collaborato con persone che hanno perfettamente compreso le tracce da seguire e hanno dato ciascuno un’impronta unica ma al tempo stesso ben coordinata col resto del disco. È una sfida che sono contento di aver affrontato. Il “mercato” – nel senso di un’attenzione verso certi prodotti – purtroppo non esiste da un punto di vista discografico, ma in questo contesto mi ritengo un privilegiato. Ho la possibilità di far conoscere il mio lavoro attraverso il canale dell’editoria. È una cosa un po’ diversa, ma anche questa è una sfida aperta e può essere che la strada intrapresa insieme alla Infinito edizioni ci possa dare delle ulteriori soddisfazioni.


Nel libro L’ULTIMO QUADRO DI VAN GOGH oltre a quella di Vincent spiccano alcune figure. Ad esempio quella di Theo Van Gogh e della giovane moglie, Johanna. Puoi parlarcene?
Theo, come l’ha definito Bernardo nell’introduzione del mio libro, è il miglior attore non protagonista del romanzo, così come lo è stato nella vita del fratello. Nel libro ho cercato di far emergere anche quanto Theo e sua moglie Johanna abbiano contribuito alla diffusione dell’opera di Vincent. Il primo incentivandolo, sostenendolo e motivandolo per tutta la vita, la seconda promuovendo i quadri del cognato, riscrivendo e traducendo tutta la corrispondenza dopo la morte dei due fratelli. Theo e Jo sono stati inoltre una coppia chiave nel percorso autodistruttivo di Vincent: in molti infatti sostengono che la nuova vita coniugale del fratello abbia assestato un duro colpo al già difficile equilibrio emotivo di van Gogh, che si è sentito mancare l’appoggio di Theo.


Altra figura centrale è Adeline, la piccola Adeline…
Adeline Ravoux è secondo me il vero fulcro del romanzo. La ragazzina figlia dei gestori della locanda porta con sé il candore della bambina e la “fermezza” della donna, diventando col passare delle pagine sempre più un personaggio simbolico. Lascio al lettore ovviamente la libera interpretazione. Io dietro ad Adeline scorgo una sorta di mondo, il nostro mondo, quello a cui Vincent ha lasciato le sue opere.


Se lo avessi davanti in questo momento, che cosa diresti a Vincent?
Credo gli chiederei solo di poter stare accanto a lui mentre dipinge. Siamo abituati a vedere i quadri finiti ma credo che contemplare un’opera d’arte nel suo divenire sia un’emozione ancora più grande.


E secondo te, che cosa ti risponderebbe?
Senza dubbio me lo lascerebbe fare e poi, una volta finita la tela, ne monterebbe un’altra e mi direbbe di mettermi in posa perché io ho scritto un libro per lui e Vincent è una persona generosa... Sicuramente in cambio mi regalerebbe un ritratto!