martedì 24 agosto 2010

A Lampedusa, l’isola che voleva diventare grande ma divorò se stessa


Lampedusa, estremo sud d’Italia e meta agognata dalle migliaia di migranti che intraprendono rischiosi “viaggi della speranza” lungo le rotte del Mediterraneo.
Terra di mammane, di scarse scuole e troppe case, bella e sfregiata dall’abusivismo edilizio; isola dalle mille contraddizioni dove anche l’immigrazione può diventare guadagno. Spesso dai contorni loschi. Questi i temi dello splendido A LAMPEDUSA, di Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja (Infinito edizioni, 168 pp., 13 euro).
Lampedusa non è, e non è stata, solo l’epicentro degli sbarchi irregolari ma è il simbolo di un’Italia furba seppure dal cuore grande. Nel 2008 sono sbarcati a Lampedusa circa 31.000 migranti. Da maggio 2009, il centro di soccorso e prima accoglienza è vuoto. I barconi non arrivano più. Ma il malaffare è sempre lì, dietro l’angolo.
Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja raccontano l’isola più discussa del Mediterraneo conducendo un’appassionante inchiesta giornalistica e dando voce a chi di questa terra ha contribuito a tracciare la cronaca saliente di questi ultimi anni: dalla senatrice leghista Angela Maraventano ex vicesindaco di Lampedusa e Linosa ai rappresentanti delle organizzazioni che hanno operato sul posto – Msf, Unhcr, Legambiente ecc. Dal viceparroco tanzanese ai tanti Mourad che vengono dal Marocco o da altri Paesi africani. Dal prefetto Mario Morcone ad Adelina l’ostetrica che a Lampedusa ha fatto nascere tutti. O quasi.
Scrive sul libro Carlo Bonini: “In un Paese senza memoria – il nostro – prigioniero della sindrome da assedio, A Lampedusa è una luce nel buio pesto. È un atto di coraggio civile. È il racconto minuzioso di un’isola ridotta a discarica di corpi, cose e barche, spiaggiati da quel tratto di mare che oggi divide gli uomini non tra bianchi e neri. Ma tra la vita e la speranza di poter avere un giorno qualcosa che le somigli”.
Di quest’isola, della sua gente, dei suoi problemi ho parlato in quest’intervista con i due autori.

Per la maggior parte degli italiani Lampedusa è associata a due immagini: il mare turchese dell’Isola dei conigli e gli sbarchi dei migranti senza documenti. Leggendo A LAMPEDUSA si scopre che questo scoglio in mezzo al Mediterraneo è molto di più. Potete raccontarcelo?
Lampedusa è il simbolo di un’Italia furba ma con un cuore grande, abitata da uomini e donne che si impegnano per soccorrere i disgraziati che sopravvivono ai viaggi bestiali lungo il mare. Ma anche di un Paese con il vizio di litigare per le proprie competenze, con una classe politica incline ad accendere o sopire gli animi a seconda delle opportunità e delle convenienze del momento. Una classe politica, come nel caso del sindaco di Lampedusa, refrattaria al passo indietro, nonostante un arresto e un rinvio a giudizio per concussione. È il simbolo dell’Italia delle cricche pronte a sfruttare le tragedie pur di fare business. È l’Italia della Protezione civile che anche a Lampedusa, in questi ultimi anni di “emergenza clandestini”, ha fatto il bello e il cattivo tempo diventando il principale e quasi esclusivo ente appaltante nell’isola. Appalti che sono stati affidati per via diretta, bypassando le regole comuni. È il simbolo di un sud sempre arrabbiato con Roma ma che da Roma pretende e, nel caso di Lampedusa, pretende a titolo di risarcimento per il danno di immagine (parole dell’assessore al Turismo) subìto a causa dell’immigrazione: fondi a compensazione, creazione di una zona franca, costruzione di un casinò. Un’Italia dove sviluppo significa cemento, abusivismo edilizio e sfruttamento intensivo del territorio. E che, spesso, si dimentica dei suoi concittadini più sfortunati e poveri che per curarsi – visto che a Lampedusa non c’è l’ospedale o comunque un centro medico degno di questo nome – sono costretti a spendere i risparmi di una vita.


Da quale suggestione, idea o tesi nasce il libro e che cosa vuole dimostrare?
A LAMPEDUSA non è un libro a tesi. È certamente un libro politico, perché attraverso la nostra inchiesta interveniamo su temi cruciali quali sono l’immigrazione e la legalità e alimentiamo il dibattito pubblico. Abbiamo voluto raccontare il contraddittorio rapporto – nell’anno degli sbarchi record, il 2008 – tra Lampedusa (e quindi l’Italia) e il fenomeno dell’immigrazione irregolare. E lo abbiamo fatto cambiando la prospettiva, mettendo l’isola al centro e guardando Lampedusa da Lampedusa. E quello che è venuto fuori, lo dicevamo prima, è l’affresco di un Paese furbo ma al tempo stesso generoso.


La pubblicazione come è stata accolta dai lampedusani e dai siciliani?
I siciliani - quelli “di terra” - sono fatalisti, diffidenti e curiosi allo stesso tempo. E curioso, diffidente e fatalista è stato il pubblico che abbiamo incontrato nel corso delle presentazioni del libro a Palermo, Catania e Agrigento. A commento delle pratiche al limite della legalità che raccontiamo nel libro, spesso ci siamo sentiti dire: “Cose che si sanno, che fanno tutti e che si sono sempre fatte”. Però a pochi salta in mente di denunciarli, quei fatti e quelle pratiche, di combatterle. Ma c’è una parte sana della società siciliana, che è invece capace di indignarsi, di sorprendersi, di denunciare e di lavorare per un futuro fatto di legalità, uguaglianza e integrazione. E noi abbiamo avuto la fortuna di incontrarne tante di persone così. Anche, e forse soprattutto, a Lampedusa, dove abbiamo avuto modo di confrontarci con la società civile e con qualche esponente delle passate amministrazioni. Peccato, invece, che siano stati propri gli amministratori in carica a non avere accettato il confronto. Ci ha fatto molto piacere, e lo diciamo con una punta di orgoglio, che siano stati proprio i lampedusani a definire il libro un atto d’amore nei confronti dell’isola. È come – ci hanno detto – se ci aveste messo di fronte a uno specchio, costretti a guardarci e a fare i conti con quello che siamo.


Qualche telefonata “strana” l’avrete ricevuta, però…
Una sola, e per di più quando ancora il libro non era stato distribuito. Una telefonata arrivata mentre eravamo a Torino alla vigilia della presentazione al Salone internazionale del libro, a metà maggio. Da Lampedusa una persona che conoscevamo ci chiedeva se fosse vero che avessimo scritto un libro che parlava male dell’isola e come mai. Rispondemmo all’interlocutore di valutare personalmente e che ci saremmo risentiti a lettura terminata. A luglio ci siamo rivisti. Aveva comprato dieci copie.


Quali sono le prospettive dell’isola, oggi che i migranti senza documenti non arrivano più e che lo scoglio sembra in procinto di essere trasformato in un “vacanzificio” di massa?
Intanto occorre sfatare il luogo comune dell’immigrato che a Lampedusa non arriva più, nonostante i continui proclami del ministro Maroni. L’immigrato a Lampedusa non viene fatto arrivare, che è cosa diversa. E quando ci arriva - come è successo il 22 luglio con lo sbarco a Cala Francese di circa 50 migranti, e noi eravamo lì – viene tenuto al sole, sul ciglio della strada in attesa di essere trasferito a Porto Empedocle o altrove. Nonostante a Lampedusa esistano e siano funzionanti (e vuoti) due centri per immigrati finanziati con i soldi dei contribuenti. Tutto ciò affinché Maroni possa dire: “A Lampedusa gli immigrati non arrivano più”. È vero che da quando è entrato in vigore l’accordo con la Libia e il governo ha deciso di adottare la politica dei respingimenti in mare, il flusso di barconi verso Lampedusa si è praticamente arrestato, ma è altrettanto vero che i migranti continuano ad arrivare e arriveranno sempre. Trovano altre rotte, come quella che porta sulle coste del Salento, dove negli ultimi mesi gli sbarchi sono praticamente triplicati rispetto a un anno fa. A Lampedusa il nostro Paese ha perso l’occasione di misurarsi con civiltà e senso dell’accoglienza con il tema epocale dell’immigrazione. Lì, in quello scoglio in mezzo al mare che è più vicino all’Africa che all’Europa, sono in molti ad averlo capito. A partire dai tanti giovani che gravitano intorno al mondo dell’associazionismo, da Legambiente all’Arci, e della Chiesa. Uomini e donne che vorrebbero per Lampedusa uno sviluppo diverso da quello proposto dall’attuale amministrazione, ferma all’equazione sviluppo uguale turismo di massa e cementificazione selvaggia.


Come fa l’isola a sopportare un incremento incredibile di presenze, dalle seimila o poco più dell’inverno alle 30-40.000 di agosto?
Lo fa in nome del dio denaro e della massimizzazione del profitto ma a scapito della qualità e dell’ambiente. E per quanto riguarda la ricettività nessun problema, grazie proprio alla cementificazione selvaggia dell’isola, dove hanno edificato per una cubatura pari a una popolazione di 60.000 persone a fronte di 6.000 abitanti e – in agosto – di 30.000 turisti. È evidente che un sistema del genere alla fine è inevitabilmente destinato all’implosione. L’auspicio è che chi amministra Lampedusa se ne renda conto prima che sia troppo tardi.


Alla fine, se vogliamo, l’unica parte dell’isola di Lampedusa con qualche albero e protetta dal turismo di massa è quella sottoposta a vincolo militare, quindi divisa dal resto del territorio dal filo spinato. Non è paradossale, persino grottesco, o alla fine è una situazione in linea con quella che è l’Italia oggi?
Soprattutto è paradossale il fatto che un’amministrazione favorevole al cemento sia poi costretta a utilizzare le immagini della riserva naturale e della Spiaggia dei conigli per pubblicizzare Lampedusa in Italia e nel mondo! Forse dovrebbero mettersi d’accordo con loro stessi e decidere se vogliono casinò e campi da golf o valorizzazione e tutela del territorio e dell’ambiente.


E la mafia?
Fa affari, anche a Lampedusa e anche, in parte, con il traffico dei clandestini. Non è certo una novità la presenza o l’interesse di Cosa Nostra per l’isola. Quello che inquieta, semmai, è che per la prima volta a Lampedusa e Linosa viene segnalata la presenza di una famiglia mafiosa che costituisce mandamento a se stante. E non lo diciamo noi: lo scrive la Direzione investigativa antimafia nel secondo rapporto semestrale del 2008.