lunedì 28 giugno 2010

“La lumaca e il tamburo”, quando il viaggio di un malato e una donna incinta diventa poesia


Un viaggio a piedi da Trieste – molo audace – alla Bosnia. A compierlo un uomo malato di cancro, il giornalista Paolo Vittone, e una donna in attesa del primo figlio.
Una vicenda fatta di dolcezza e poesia, di appunti presi a cavallo ci confini che hanno conosciuto l’odio e la guerra, di dolore e speranza, di vita e morte. Un libro indimenticabile come l’ultimo viaggio del grande Paolo Vittone.
Ho intervistato Elisa Iussig, compagna di viaggio di Vittone in quest’ultima avventura e autrice delle splendide chine che illustrano un volume di grandissimo pregio, LA LUMACA E IL TAMBURO. Ecco le sue risposte.

Elisa Iussig, che viaggio racconta “La lumaca e il tamburo”?
Racconta il viaggio di Paolo che non si arrende né alla malattia né alle complicazioni che comporta una partenza cosi particolare, con una compagna di viaggio che doveva badare di lui e all’ultimo momento scopre di essere incinta… Quindi la badante a cui badare; poi la pioggia, gli appuntamenti con i medici, e la primavera che esplodeva in milioni di germogli. Infine, la voglia di vivere.

L’autore dei testi di questo splendido libro, Paolo Vittone, purtroppo non c’è più. Che significato aveva per lui il viaggio raccontato nel libro?
Come lui stesso dice nel libro, il viaggio rappresentava una sfida al cancro. Attraverso il viaggio, voleva riprendersi il suo tempo, il suo corpo. Mettersi in motto e fare quello che gli piaceva, e che sempre ha fatto: ascoltare storie e raccontarle, attraversare diverse geografie e lasciarsi attraversare dai luoghi visitati.

Tu hai vissuto la fase di preparazione del viaggio e, seguendo o precedendo Paolo in automobile, la prima parte dello stesso. Che cosa ti raccontava Paolo alla sera, alla fine di ogni tappa, e qual era il suo umore nonostante la debilitazione fisica provocata dal male che lo minava?
L’umore di Paolo durante il viaggio era ottimo. Era felice, nonostante le limitazioni fisiche, e le grosse difficoltà. Ad esempio, tra le prime due tappe del viaggio si era sottoposto a una seduta di chemioterapia ed era venuto da Milano a Trieste in treno, poi da lì poi in macchina fino al punto in cui aveva sospeso la prima parte del viaggio e da cui sarebbe ripartito a piedi. Tutto questo con ancora addosso una macchina che gli erogava i medicinali. Nonostante tutto, però, era contento come un bambino in gita.

Hai corredato di disegni splendidi questo suggestivo, emozionante diario di viaggio da Trieste attraverso i Balcani. Da dove traevi, ogni volta, l’ispirazione per realizzare i disegni e quali tecniche hai usato?
Sono un po’ eclettica, non ho una tecnica precisa. Aalcuni sono stati fatti lì, “in situ”; altri al tavolino di qualche bar mentre aspettavo che quel puntino lontano si avvicinasse e diventasse Vittone. Altri da appunti o da fotografie e alcuni, infine, sono delle composizioni di collage fatte dopo le chiacchierate con lui.

Che cosa donerà questo libro a chi lo vorrà leggere?
Il libro ha una narrativa scorrevole e sa donare tante riflessioni su argomenti come il giornalismo, la guerra, la prigione della vita in città, e anche sulla morte, sulla vita e sulla malattia.

Con quale musica di sottofondo leggerlo, fosse anche solo la voce del mare?
Non saprei dire, ma mi e venuto in testa il particolare che durante il viaggio non abbiamo mai, mai acceso la radio né ascoltato dei cd. Si ascoltava il suono dell’acqua (la pioggia, i fiumi e il mare), i rumori dei boschi e dai paesini, le voci delle persone… Lui prendeva appunti su un block notes ma, come ogni buon giornalista che fa radio, portava sempre con sé il registratore. Finito il viaggio, dopo qualche mese è nata Nina, la mia bambina, e lui le ha regalato una Ninananna – cioè una ninnananna per Nina – fatta con un collage dei pezzi sonori del viaggio. Era un genio anche in queste piccole, grandi cose…

venerdì 11 giugno 2010

Mondiali di calcio, oggi il fischio d’inizio. Parliamo di Sudafrica, ma “in bianco e nero”


Fischio d’inizio, oggi pomeriggio alle 16,00, dei Mondiali di calcio sudafricani.
Si comincia con Sudafrica-Messico.
Abbiamo parlato del Paese africano con Marco Buemi, autore del libro (foto e testi) SUDAFRICA IN BIANCO E NERO.

La bibliografia in italiano sul Sudafrica è decisamente limitata e Sudafrica in bianco e nero arriva a colmare un grande vuoto, in una fase storica centrale per il Paese africano, due decenni dopo la fine dell’apartheid e alla vigilia dei mondiali di calcio mai organizzati in Africa. Come descrivere questo progetto e come è nato?
Il progetto è nato dopo aver percorso 7.000 chilometri lungo il Paese da nord a sud e da est a ovest, ma soprattutto dopo aver passato diversi giorni nella township di Soweto, acronimo per South West Township, la più grande township del Sudafrica, popolata da circa quattro milioni di abitanti, sorta come ghetto dormitorio per i sudafricani neri chiamati a lavorare per i bianchi a Johannesburg nelle miniere d’oro. Questa città-quartiere ha rappresentato la separazione tra bianchi e neri imposta dall’apartheid, ed è ancora oggi il luogo simbolo della segregazione razziale. Quest’anno, in occasione dei mondiali di calcio, il Sudafrica tornerà sotto gli occhi dei media e questo potrà essere un momento positivo in cui tornare a sensibilizzare l’opinione pubblica su tutte le questioni sociali ancora aperte che rimarranno offuscate rispetto al rumore che accompagnerà il campionato.

Perché la scelta di un libro parte testi e parte fotografico?
Sudafrica in bianco e nero nasce dall’idea di voler descrivere un Paese ricco di contraddizioni attraverso un percorso scritto fatto di testi asciutti ma essenziali, che riporta tutte le questioni nazionali di rilevante attualità quali sicurezza, apartheid, convivenza,calcio e rugby, cultura,salute, economia, lavoro, diritti umani, e un percorso fotografico monocromatico di contrasto tra bianco e nero che richiama il periodo buio dell’apartheid.

Vent’anni dopo la fine dell’apartheid, che cosa è cambiato oggi in Sudafrica e cosa, invece, si ostina a non cambiare?
Oggi in Sudafrica i princìpi di uguaglianza sono ben sanciti sulla carta e tutte le leggi si richiamano alle pari opportunità, garantendo tutti i diritti fondamentali. Ma dal 1994, data in cui ci furono le prime elezioni democratiche, a oggi, possiamo dire che sedici anni sono pochi per cambiare un Paese e i meccanismi che lo hanno governato per più di quarant’anni.

Il Sudafrica balza spesso alle cronache internazionali per il clima di insicurezza e di violenza sociale, in particolare nelle metropoli. Che cosa c’è di vero e che cosa hai potuto sperimentare di persona?
La prima cosa che si nota appena si atterra all’aeroporto internazionale di Johannesburg e percorrendo la lunga tangenziale che porta verso il centro della città sono i quartieri blindati, le case con un aspetto di vere e proprie fortezze, costruite per difendere la classe medio-alta dalla criminalità, che ha raggiunto livelli insostenibili specie nelle grandi città, con guardie armate a protezione, forti luci che illuminano a giorno, muri alti attraversati da corrente elettrica e cani da guardia. Il business della sicurezza privata vale oggi 1,4 miliardi di euro all’anno e può vantare un esercito di 300.000 guardie private a difesa del problema nazionale numero uno, appunto la sicurezza. Dai racconti di Amy, discendente dai Boeri da 8 generazioni, che mi ha ospitato durante il mio soggiorno a Johannesburg, è emersa una realtà fatta di violenze e sopraffazioni, di cui sempre più spesso è vittima anche la popolazione bianca che, anche se nettamente in minoranza e senza molto potere politico, a tutt’oggi detiene un’elevata quota della ricchezza nazionale, mentre circa il 40% della popolazione vive con meno di 2 dollari statunitensi al giorno. Suo nonno due anni fa fu ucciso durante una rapina in casa; i ladri, pur essendo stati predisposti i migliori sistemi di sicurezza, erano riusciti ugualmente a entrare e, dopo aver rubato, non contenti gli spararono.

Come descrivere oggi il rapporto tra bianchi e neri in Sudafrica?
La segregazione da ufficiale è diventata non ufficiale. Bianchi e neri tutt’oggi tendono a frequentare posti diversi non incontrandosi.

Qual è l’impatto del visitatore di fronte a Robben Island e agli altri luoghi simbolo della segregazione razziale?
Entrare a Robben Island e visitare altri simboli della segregazioni razziale come il Museo dell’apartheid o il museo dedicato a Hector Pieterson è come rivivere, catapultati nel passato, le vicende che hanno portato alla lotta contro il sistema segregazionista. Questi luoghi sono il simbolo e la testimonianza di momenti storici dolorosi durante i quali, però, sono maturate lentamente, mediante lo strumento del dialogo, le condizioni per un percorso di riconciliazione nazionale.

Come viene percepita oggi la figura di Nelson Mandela?
Mandela è stato da sempre in prima linea per combattere le ingiustizie causate dall’apartheid, prima facendo lotta politica, anche quando era rinchiuso a Robben Island, e successivamente nel difficile processo di ricostruzione attraverso il quale dovevano essere leniti i segni indelebili delle sofferenze patite dalla popolazione nera. Questo processo doveva, infatti, passare attraverso la riconciliazione, superando un passato e un’eredità fatti di sfruttamento e dolore sotto il peso del razzismo. A oggi rimane in assoluto una figura guida e carismatica per tutti i sudafricani e ha lasciato un grande vuoto di leadership quando si è ritirato dalla politica.

I mondiali di calcio rappresentano per il Sudafrica più una sfida per lo sviluppo o un problema?
I mondiali rappresentano per noi e per tutta l’Africa la più grande opportunità che ci sia mai capitata. Questo evento avrà per tutto il Paese grandissime ripercussioni economiche e, quindi, di riflesso, anche sociali. Si stanno costruendo aeroporti, strade che attraverseranno tutto il Paese, hotel, stadi, strutture di trasporto pubblico, ecc. Dopo la coppa del mondo la gente potrà continuare a usufruire di queste infrastrutture, e ciò non farà altro che aumentare la qualità della vita sia dei cittadini che dei turisti. Questi grossi investimenti, oltre ad avere stimolato lo sviluppo delle infrastrutture anche dei Paesi limitrofi, hanno determinato un’apprezzabile crescita dell’occupazione.

In questo senso, i sudafricani come percepiscono quest’evento sportivo planetario?
Come una grande occasione sia per far conoscere un Paese ricco di natura e di tradizioni culturali e sia come volano per un maggiore sviluppo economico che sicuramente richiamerà maggiori investimenti.