mercoledì 8 luglio 2009

Srebrenica, 14 anni dopo il genocidio / 1



Comincia oggi la settimana che si concluderà, sabato 11 luglio, con il ricordo del genocidio di Srebrenica, consumatosi l’11 luglio 1995 davanti agli occhi dei caschi blu dell’Onu e di una comunità internazionale del tutto assente e disinteressata.
Regalo ai lettori uno dei capitoli, l’ottavo, di “Srebrenica. I giorni della vergogna”, giunto alla seconda edizione e in traduzione in serbo-croato (sarà pubblicato in Bosnia il prossimo autunno).
Quello di Srebrenica è stato l’unico genocidio consumatosi in Europa dopo quelli perpetrati dal nazifascismo ai danni di ebrei e rom. “Srebrenica. I giorni della vergogna” è l’unico libro aggiornato interamente dedicato all’argomento in distribuzione in Italia e il primo libro di un autore italiano in materia a essere tradotto in serbo-croato e a essere immesso nel mercato balcanico.


Un giornalista a Srebrenica
Tratto da Srebrenica. I giorni della vergogna
Infinito edizioni, seconda ristampa, 2007


Il sole è basso dietro le case di Srebrenica, nonostante sia solo l’ora di pranzo. Il cielo è di nuovo velato di qualche lieve strato di nuvole; un vento frizzante sferza le gote, scompiglia capelli e fa alzare buffi mulinelli di polvere che ricadono confondendosi con la sporcizia e il grigio del cemento schiaf¬feggiato qua e là da qualche cazzuola per chiudere alla meglio i buchi delle granate. Sadik Salimović se ne sta fermo in un giubbotto marrone chiaro un po’ consunto accanto alla sua vecchia Volkswagen Polo rossa, parcheggiata con una certa fantasia una decina di metri più in là rispetto all’irta scalinata del palazzo comunale, non lontano da una catasta di legna da ardere che qual¬cuno ha già ordinato diligentemente per l’inverno incipiente sull’asfalto rab¬berciato, proprio sotto un palazzo dalla facciata bianca. L’uomo è incuriosito dalla presenza di forestieri e non lo nasconde. Si avvicina a Malkić, gli chiede qualcosa. Il sindaco ci presenta questo personaggio di mezza età, dal fisico leg¬germente appesantito e lo sguardo penetrante dietro gli spessi occhiali, come «il giornalista di Srebrenica».
È una sorta di istituzione, Salimović: tutti lo conoscono, quasi tutti lo sa¬lutano, in molti probabilmente lo temono. E lui teme loro, a giudicare dalla circospezione con cui cammina sui marciapiedi rattoppati schivando i segni delle granate sull’asfalto consunto. Ha scritto un libro sulla sua città, dalla fon¬dazione alle lacrime disperate delle donne di Srebrenica che piangono i loro cari. Non ha editore e per stamparne 3.000 copie si è indebitato per gli anni a venire. Ma ha fatto le cose in grande: copertina pesante con fondo argentato: che cosa c’è di meglio per la città dell’argento? «Sono stato a Tuzla per otto anni, durante e dopo la guerra. Ho avuto varie opportunità per andare via dalla Bosnia ma non ho voluto, non ho potuto. Ho sempre cercato di tornare a casa, qui a Srebrenica, e l’ho fatto due anni e mezzo fa: non me ne sono pentito» racconta una volta arrivati in cima alla salita che porta nel cuore della città. Gli spieghiamo che dobbiamo incontrarci con Hatidja Mehmedović, fondatrice e direttrice dell’associazione civica delle Madri di Srebrenica e Žepa, che si occupa di dare assistenza economica alle persone che decidono di rien¬trare nell’ex enclave. Sgrana gli occhi piccoli: la conosce, molto bene. Si offre di accompagnarci da lei.
Torniamo dal povero Eldin e lo ritroviamo pallido, a stomaco vuoto come noi – nonostante ci fossimo lasciati con lui intenzionato «a cercare un posto dove mangiare un sandwich» – e con un uomo grande e grosso dalla faccia squadrata che lo tallona zoppicando visibilmente e caracollando da un paio di metri d’altezza: «Dice che è un serbo di Bratunac. Che fa il tipografo e vuole un passaggio per tornare in città. Dice che non è riuscito «a scrollarselo di dosso» traduce un’allibita Emira mentre il tassista guarda da un’altra parte.
Dopo che a fatica Eldin ha riavviato il suo bianco mulo stanco seguiamo la Polo di Salimović fino a una strada sterrata fuori città, dove lasciamo il tas¬sista, decisamente preoccupato, e il suo nuovo “amico” di Bratunac, un uomo decisamente impaziente.
Ci inerpichiamo con Emira e Sadik fino a raggiungere la vetta della collina. Ci sono case distrutte, altre edificate a metà, altre ancora quasi finite. Quella di Hatidja appartiene a quest’ultima categoria. Anzi, ci spiegherà poi, grazie ai soldi che un’amica austriaca le ha donato ha potuto avviare la costruzione di alcuni muretti in cemento armato per contenere la terra che, durante le frequenti piogge, tendeva a franare contro le pareti della sua casa, costruita in basso, in pendenza rispetto alla vetta della collina.
Lì fuori vivono una parte dei ricordi più dolci e tragici di Hatidja: lì cre¬sce l’albero piantato dal maggiore dei suoi due figli, entrambi uccisi dai ser¬bo-bosniaci nel genocidio di Srebrenica; lì, sul cemento ruvido del piccolo spiazzo che si apre davanti alla sua casetta, fredda all’interno come la morte che avremmo conosciuto per nome e cognome il giorno dopo, a Tuzla, giace l’impronta di una piccola mano: «Ricordo ancora quando mio figlio minore la lasciò, premendo la manina sul cemento fresco. Volevano cancellarla, ma glie¬l’ho impedito: quest’impronta e quest’albero sono tutta la mia vita» spiega la donna, passando poi a raccontarci del serpente che proprio quella mattina le è entrato in casa e alla caccia intrapresa per espellere l’indesiderato e velenoso rettile da sotto i modesti ma ordinati mobili. Perché è così difficile trattenere le lacrime, a volte?
È nel salotto al primo piano, l’unica camera lievemente riscaldata da una stufa a legna di ghisa nera, che Sadik, consumando un caffè preparato da Ha¬tidja, che si limita a guardarci poiché sta osservando il Ramadan, ci racconta non senza resistenze della “sua” Srebrenica, prima di salutarci titubando un po’ davanti alla richiesta di poter citare il suo nome nell’intervista e lasciarci con l’universo immensamente complesso e tragico della donna che ci ospita, e che di tanto in tanto approfitta delle nostre chiacchiere per andarsi a mettere la camicia buona, tirare su la crocchia dei capelli ingrigiti dal dolore o infilare un ciocco di legna nella bocca di ghisa della stufa.
Sono poche domande, quelle che viene spontaneo fare a Salimović, le cui risposte fotografano una realtà difficile da capire, per chi viene da lontano.
Immagino che avrai avuto modo, in questi anni, grazie al tuo lavoro, di moni¬torare Srebrenica su tutta la stampa bosniaca: come se ne parla?
Srebrenica ha un’attenzione dei media molto particolare; qualche volta vie¬ne presentata in cattiva luce, ma per lo più sotto aspetti positivi. Credo che in città ci siano stati notevoli progressi in questi ultimi due anni. Penso ad esem¬pio alla vita pratica. Srebrenica prima della guerra era stata completamente illuminata, anche nelle zone rurali; dopo la guerra c’era corrente elettrica solo in città. Ora, con l’aiuto americano, l’elettricità copre il 95% del territorio.
Il sindaco ha detto che tutta l’area rurale è di nuovo illuminata.
Lui fa il politico, io il giornalista. So per certo che ne manca ancora in al¬cune zone, ma che si sta lavorando a questa come ad altre urgenze. Si stanno ricostruendo le strade, ad esempio, per poter raggiungere tutti i posti abitati; ai rientrati viene dato un aiuto, nei limiti delle possibilità. Percepiamo ancora assistenza umanitaria, dall’America e dai Paesi europei, perché qui la gente vive solo d’agricoltura, non c’è lavoro. Prima della guerra avevamo in città 10.000 impiegati; ora siamo in tutto 10.000 abitanti...e le persone che lavora¬no saranno al massimo 500. Tanti sfollati dei tempi della guerra non tornano perché qui non c’è lavoro; ma è altrettanto vero che queste stesse persone non hanno un’occupazione neanche a Tuzla, così magari alla fine qualcuno di loro decide di ritornare alle sue vecchie proprietà per occuparsi d’agricoltura e allevamento. Io personalmente ho lavorato per 7 anni alla televisione di Tuzla; ero impiegato a tempo indeterminato ma sono tornato benché fossi consapevole del fatto che qui non avrei mai trovato un posto fisso. Ora lavoro solo quando ci sono progetti dedicati a Srebrenica. Ma sono felice della scelta che ho fatto.
Dopo 10 anni, a tuo avviso, il genocidio di Srebrenica comincia a essere rivisi¬tato? In sostanza, il negazionismo sta riuscendo a guadagnare strada oppure no?
Vedi, le nostre ferite non potranno mai guarire, perché qui è successo qual¬cosa di particolare. Non lo possiamo dimenticare: dobbiamo vivere con que¬sto ricordo, soprattutto per quello che è successo l’11 luglio 1995, e non ho paura di dire che tutti coloro che fin qui hanno avuto il coraggio di ritornare sono degli eroi. Nel 1992 molti cittadini di Srebrenica, serbi e musulmani, sono dovuti fuggire, anche se ancora non si sapeva esattamente a che cosa saremmo andati incontro, in particolare per le decine di migliaia di persone che rimasero. Ora siamo tornati, pur sapendo quello che è accaduto. Credo che non ci sia nessuno capace di spiegare quale e quanta sia questa forza che ci spinge a rientrare nelle nostre case. Gran parte della gente che torna lo fa per¬ché ha un grande orgoglio. Mi chiedevi del revisionismo, del negazionismo… Beh, non possiamo nascondere che soprattutto all’inizio, da parte serba, si sia manifestata una certa resistenza, poiché la maggior parte di loro tendeva a ne¬gare il crimine. Però ufficialmente lo stesso presidente della Rs, Dragan Cavić, ha riconosciuto che a Srebrenica è stato compiuto un crimine atroce. È vero: persino i serbi di Srebrenica inizialmente hanno negato che il genocidio fosse stato commesso, ma ora lo riconoscono, sebbene non abbiano le idee chiare su che cosa sia successo esattamente qui, perché anche molti di loro sono stati rifugiati altrove. Inizialmente le autorità serbo-bosniache hanno fatto di tutto per nascondere i crimini, a cominciare dai militari, che negavano tutto. Ma una tragedia di queste dimensioni, con 7.500, forse 8.500, forse 10.000 e più morti, non può essere tenuta nascosta per sempre, è impossibile.
La stampa nazionale come ha accolto il terzo rapporto della Commissione della Rs, di cui accennavi poco fa?
Attualmente tutta la stampa riporta i fatti in maniera oggettiva. Ora non si tace più su questi argomenti. Per fortuna, è questa la verità.
La depenalizzazione del reato di diffamazione a mezzo stampa è stato un evento celebrato da tutti i giornalisti bosniaci come una grande conquista; ciò nonostante, è aumentata la pratica di chiedere ingenti risarcimenti in denaro ai giornalisti e alle testate, bloccando di fatto la libertà di stampa nelle aule dei tri¬bunali. Oltre a questo, esistono pericoli per un giornalista bosniaco nello svolgere la sua professione in maniera oggettiva?
Non c’è nessun pericolo. Lavoro per un giornale di cui sono caporedattore, insieme a sei giornalisti, e scriviamo di tutto in modo oggettivo, di qualsiasi tematica si tratti: dalle cerimonie che si svolgono al memoriale di Potočari all’apertura di nuove fosse comuni, nelle quali a volte vengono ritrovati i resti di musulmani, altre di serbi. Non sento, da parte dei colleghi giornalisti serbi, l’intenzione di coprire la verità. Scriviamo oggettivamente e la popolazione lo accetta. Non abbiamo avuto critiche sui nostri pezzi da parte di nessuno, nonostante abbiamo trattato anche temi delicati. Tre anni fa non avrei mai pensato che sarei tornato qui: avevo davvero paura di rientrare. Ora svolgo una professione “abbastanza pericolosa”, costantemente sotto i riflettori del¬la critica, ma finora non ho avuto problemi. Oggi è molto più facile fare i giornalisti in ogni zona della Federazione rispetto agli anni immediatamente successivi alla fine della guerra; ma certo, qui non siamo nella Federazione, e a Srebrenica è tutto più difficile, perché questo è il terreno più sensibile...
Deve andare. Finisce il caffè, saluta ed esce dopo aver abbracciato Hatidja. Dalla finestra lo vediamo risalire il viottolo di cemento fino alle scalette che portano alla strada sterrata. Il bavero alzato, le mani in tasca, la testa bassa: un giornalista a Srebrenica.