sabato 6 giugno 2009

Uscire dalla società della conoscenza


Intervista a Valerio Romitelli, autore de “Fuori dalla società della conoscenza

Valerio Romitelli, docente di Etnografia del pensiero e Metodologia delle scienze sociali all’Università di Bologna, dirige il Gruppo di ricerca di etnografia del pensiero (GREP), con cui ha firmato “Fuori dalla società della conoscenza”, molto più di un manuale universitario ma, fondamentalmente, un grimaldello letterario con il quale l’autore sgretola la cosiddetta “società della conoscenza”, in cui oggi vivremmo, riducendola più correttamente a una “società delle incognite”. Poiché, per Romitelli e li suo gruppo di ricercatori, enorme è il numero di incognite trascurate o create nella convinzione di sapere già per l'essenziale come vanno il mondo e la realtà sociale. Come si legge nella quarta di copertina del libro, “Per sapere come le popolazioni dei “governati” rendono possibile la realtà sociale non bastano sondaggi d'opinione, raccolte di dati statistici o altri tipi di informazioni. Occorre interpellarle. Occorre studiare, con un metodo adeguato e attento, le loro parole e i loro pensieri. Solo così il nostro tempo potrebbe risultare meno incognito. Le scienze e politiche sociali potrebbero trarne insegnamenti fecondi per migliorare conoscenze e interventi. Questo è l'auspicio cui l'etnografia del pensiero dedica le sue fatiche”.
Con Valerio Romitelli abbiamo approfondito questi e altri concetti nell’intervista che segue.

D. Prof. Romitelli, cominciamo dal titolo del suo libro: “Fuori dalla società della conoscenza”. Che cosa intende per “società della conoscenza” e perché l’esortazione a superarla?
R. Dagli anni ‘80 le differenze mondiali tra ricchi e poveri stanno sempre più aumentando, anche in questi Paesi già poveri e che stanno diventando (come Cina, India, Brasile e Russia) più ricchi di quelli già ricchi. La crisi recentemente esplosa, del resto, è incerta in tutto tranne sul fatto che sicuramente aggraverà questo tragico divario.
Non considerare questo come il principale problema sociale è in primo luogo ciò che non perdono ai teorici dell’attuale epoca come epoca della conoscenza. Per loro infatti tutto è da analizzare come relazione di scambio di conoscenze tra persone. Se qualcosa non va, allora, è perché una o più persone non sanno comunicare come si deve. Cosicché il rimedio starebbe nell’aiutare questo sapere innato, di cui ogni persona sarebbe geneticamente dotata, semplicemente favorendo lo scambio di informazioni. Nel caso poi che questo aiuto fosse inefficace o addirittura rifiutato, allora la persona stessa andrebbe degradata e trattata come individuo ritardato, egoista o fanatico di qualche ideologia.
Non è forse questo il ragionamento supposto da qualsiasi recente discorso politico, legge, regolamento pubblico e privato, talk-show televisivo, in qualunque angolo della cosiddetta Comunità internazionale? In effetti, il cognitivismo non è un’ideologia, in quanto sospetta di ogni idea riducibile ai valori (detti “etici”) della sua presunta logica naturale. Si tratta piuttosto di una sensibilità. La sensibilità che domina le opinioni del nostro tempo, come mai è accaduto in precedenza. Il suo trionfo ha avuto come condizione non solo la cosiddetta rivoluzione informatica e la globalizzazione dei mercati, ma soprattutto il crollo delle patrie della classe operaia e quindi delle ideologie classiste che, vere o false che fossero, consigliavano ai governanti pubblici e privati una qualche prudenza in materia di politiche sociali.
Questo senso comune cognitivista, godendo di una sorta di monopolio sui modi di pensare, impone una visione quanto mai ristretta della realtà sociale. Così, mentre inneggia alla conoscenza, in realtà diffonde ignoranza su tutti i maggiori problemi sociali. Problemi sociali che di fatto sono sempre essenzialmente impersonali, nel senso che nessuna persona in quanto tale vi può nulla.
Porsi “fuori della società della conoscenza” è dunque necessario per far ricerca su tutte le incognite che essa crea e nasconde. Quella vastissima zona d’ombra in cui sono calate tutte le popolazioni che non hanno potere né di governo, né di comunicazione, né di informazione, eppure con la loro fatica e sofferenza rendono possibile la realtà sociale. Per conoscere tale realtà, non c’è che da interpellare queste stesse popolazioni, per potere istruirsi alle loro parole e pensare il loro pensiero. Il risultato così certo sarà una conoscenza, ma certo più specifica e profonda di quelle riducibili a informazioni vincenti sul piano della comunicazione.

D. Lei invita a un approccio diverso nello studio delle scienze sociali. Qual è questo approccio e come sta lavorando per metterlo in atto?
R. L’etnografia del pensiero si situa ovviamente nei paraggi di quelle che si chiamano le scienze sociali qualitative. Quelle che fanno ricerche non sulle popolazioni, per ricavarne dati quantitativi e panoramici, ma tra le popolazioni, incontrando direttamente campioni limitati di esse.
Quattro si può dire siano le principali peculiarità del nostro approccio.
La prima sta nel supporre che la realtà sociale non è fatta anzitutto di persone più o meno evolute, ma è fatta di due popolazioni ben distinte: da un lato, quelle che hanno il potere di decidere della vita di molti altri; dall’altro, quelle che soffrono e fanno fatica a rendere possibile la propria esistenza. È quest’ultimo il tipo di popolazione cui dedichiamo le nostre ricerche, con l’obiettivo di proporre delle prescrizioni atte a migliorare le condizioni di lavoro o di fruizione di servizi fondamentali.
La seconda sta nell’interpellare sempre sul luogo (all’interno dei luoghi di lavoro o di fruizione di servizi) questo tipo di popolazione, facendo lunghe interviste con un campione limitato di soggetti e poi elaborando un rapporto finale d’inchiesta destinato a pubblicazioni scientifiche, ma anche a discussioni sulle politiche sociali operanti in quello stesso luogo.
La terza, è che l’analisi del contenuto delle interviste viene concepita come incontro tra due pensieri: da un lato, quello degli intervistati che hanno diretta esperienza del luogo, dall’altro, il nostro stesso, di ricercatori che intendiamo conoscere come questa esperienza viene pensata dai diretti interessati.
La quarta è evitare ogni metalinguaggio. Così escludiamo ogni logica (di “sistema”, “struttura”, “funzione”, “relazioni”, “percezioni”, “comportamenti”…) tramite il cui filtro solitamente si cerca di decodificare il linguaggio delle popolazioni incontrate. Noi ergiamo le parole di chi incontriamo a fonte primaria di quanto vogliamo conoscere. Così, nei nostri rapporti d’inchiesta le parole chiave, a volte pure lo stesso titolo, sono citazioni alla lettera di quanto ci è stato detto nell’intervista.

D. Ha fondato un gruppo denominato Grep. Di che cosa si occupa, con quali mezzi e perché?
R. Il Gruppo di Ricerca di Etnografia del Pensiero esiste da circa sette anni, è riconosciuto dal Dipartimento di Discipline Storiche (prossimamente anche Antropologiche e Geografiche) dell’Università di Bologna e ha al suo attivo una ventina di inchieste: alcune pubblicate nel libro precedente Etnografia del pensiero. Ipotesi e ricerche, del 2005, altre pubblicate su riviste, mentre le più recenti sono quelle che compaiono in Fuori della società della conoscenza. Questo gruppo è formato soprattutto da giovani. I sostegni alle nostre ricerche vengono oltre che, in parte limitata, dall’Università, da varie istituzioni e imprese interessate dalle ricerche stesse. Recentemente abbiamo goduto di un finanziamento dell’ex ministero della Solidarietà sociale.
In termini generali, si può dire che il suo obiettivo scientifico sta nel provare, tramite lo studio di casi concreti, che il pensiero dei governati, di quelli che solitamente non contano, è un’inesauribile e ancora ampiamente inesplorata fonte di conoscenze della realtà sociale. Il Grep ha però anche un duplice obiettivo politico, sia pur perseguito in scala ridotta, quasi minimale: da un lato, contribuire alla conoscenza reciproca e quindi alla possibilità di nuovi modi di unione tra lavoratori e popolazioni disagiate. Siamo infatti convinti che con la fine delle ideologie classiste lavoratori e popolazioni disagiate sono quanto mai soggettivamente divisi e dispersi tra svariate identità personali o comunitarie, le quali hanno come conseguenza maggiore di aggravare i problemi della realtà sociale. Dall’altro, contribuire a che i governanti pubblici o privati abbiano occasioni di conoscere il pensiero delle popolazioni che governano e quindi di adottare politiche che siano effettivamente, e non solo formalmente, democratiche.

D. Il mondo accademico come ha accolto le sue teorie e il suo nuovo approccio? Con quale genere di resistenze si trova a doversi confrontare?
R. Quando si parla di antropologia ed etnografia, si pensa quasi sempre a ricerche di contorno, che danno un po’ di colore alle scienze sociali, il cui nocciolo duro starebbe sempre nelle statistiche. Salvo poi riconoscere la relativa affidabilità del dato puramente numerico. Temi privilegiati dalle scienze sociali qualitative sono comunque quasi sempre le “motivazioni”, i “racconti di vita”, le “aspettative”, le “percezioni” o i “comportamenti” delle popolazioni indagate. Queste ultime sono dunque interpellate su quel che si ricordano del loro passato, su quel si immaginano del loro avvenire o su come reagiscono di fronte a un contesto di relazioni che si suppone dato. Così, a essere eluso è il presente stesso della realtà sociale, ossia come esso venga condizionato dalle parole e dai pensieri di chi ne fa esperienza diretta. È proprio questo invece a interessare soprattutto il Grep. Anziché interpellare i nostri intervistati sul “prima”, sul “poi” o sui loro adattamenti ambientali, ciò che puntiamo a conoscere è proprio come la realtà di un luogo di lavoro o di servizio viene presentata dalle parole e dal pensiero di chi ne fa esperienza diretta.

D. Professore, perché in Italia è necessario avere i capelli bianchi per farsi prendere in considerazione da qualcuno e i giovani continuano a essere trattati comunemente – dal mondo accademico, dalla politica, da molti altri ambienti – come dei perfetti imbecilli?
R. C’è una parte della mia Introduzione a Fuori della società della conoscenza dedicata proprio all’Italia. In una battuta dico che la società di questo Paese merita la qualifica di società “delle conoscenze”. Delle conoscenze personali, intendo. Delle conoscenze che implicano una famigliarità diretta. Così, ovunque, ci vuole sempre la raccomandazione di un padrino o di una madrina. Padrino e madrina che prendono sul serio solo altri padrini e madrine. La disoccupazione giovanile, per di più dei giovani meglio istruiti, è proprio un tratto caratteristico del nostro Paese. Già si investe poco nell’università e quindi nella creazione di esperti, ma quelli che già ci sono vengono ampiamente inutilizzati. Siamo dunque in un Paese “vecchio” a più titoli. Anche nelle difficoltà di aprirsi a quei lavoratori stranieri che rappresentano una preziosa opportunità di ringiovanimento e diversificazione. Se tra gli italiani finora permane un certo benessere, deriva dalla tradizione delle imprese di stazza artigianale, conosciute nel mondo, ma esse stesse fondate su conoscenze famigliari e personali. Di qui anche la notevole ignoranza riguardo alla realtà sociale che in Italia caratterizza la politica e le istituzioni. Preti e organi di polizia sono sempre i meglio informati. Il fatto è che le scienze sociali, già a suo tempo impedite dal fascismo, nel dopoguerra sono state compresse dalla chiesa e dai partiti i quali avevano le loro dottrine sociali da difendere.
Per tutto ciò tra i risultati del Grep mi pare ci sia da annoverare anche quello di essere fatto soprattutto di giovani appassionatisi alle scienze sociali e convinti che esse possano servire a rinnovare il Paese.

D. Esiste una ricetta per un Paese e per un mondo un po’ migliore?
R. Ce ne è un’infinità. Esse stanno tra chi fatica e soffre per rendere possibile la propria esistenza e quindi la realtà sociale. Il problema è che nessuno o quasi le cerca tra queste popolazioni, ma sempre e solo tra i vari esperti. Esperti, che peraltro sono meno vari, proprio perché la stragrande maggioranza di loro condivide l’opinione che tutto si riduce a informazione e comunicazione. Uno dei dogmi cruciali della presunta “società della conoscenza” è proprio questo: che il mondo gira seguendo le conoscenze ridotte ad informazioni e quindi utili a vincere sul piano della comunicazione. Qui, in questo tipo di sensibilità cognitivista, sta una delle più profonde cause dell’attuale crisi che rischia di essere infinita se non si trovano delle alternative. Esse non scenderanno mai dal cielo, ma vanno cercate tra le parole e i pensieri che brulicano nell’immensa popolazione dei governati, di quelli che non contano. Ma da sole, queste ricette alternative, non vengono fuori. Ci vogliono approcci e metodi adeguati per individuarle e farle conoscere. Il che, sia chiaro, non significa ridurle ancora una volta a informazioni, ma, tutto al contrario, renderle pensabili e ripensabili da chiunque. È a questo che il Grep dedica tutti i suoi sforzi di ricerca.