lunedì 22 giugno 2009

Da Srebrenica alla belva che è in noi


I diritti umani, l’Onu, la guerra, il genocidio, il giornalismo e tutti i Sud del mondo.

Simone Gambacorta intervista Luca Leone per Cultura Abruzzo.it

Luca Leone (1970) è saggista e giornalista professionista. Fra gli altri, ha scritto due libri importanti, “Srebrenica. I giorni della vergogna” (Infinito Edizioni, pp. 160, Euro 12) e “Uomini e belve. Storie dai sud del mondo” (Infinito Edizioni, pp. 174, Euro 13). Dopo averlo incontrato tempo fa al Circolo culturale “Il nome della rosa” di Giulianova (Teramo), lo abbiamo intervistato su questi suoi due volumi.

Sei un giornalista professionista: raccontami, in breve, il tuo percorso.
Ho cominciato a scrivere sul primo giornale locale a diciotto anni o giù di lì. Ho continuato durante gli anni dell’università, aggiungendo lavori di ricerca, saggi lunghi e altro per organizzazioni non governative. Nel frattempo, oltre a studiare, vivendo in una zona con una robusta tradizione agricola, lavoravo assiduamente come vendemmiatore, uomo di fatica e via dicendo, così da guadagnarmi qualcosa per sopravvivere. Dopo il servizio civile, la prima vera occasione: “Avvenimenti”. Da lì varie esperienze, da “Internazionale” al “Venerdì di Repubblica”, da “Metro” a “Medici senza frontiere”, dalla “Misna” a “Popoli e missione”, “Galatea”, “Liberazione” e tanti altri ancora. Nel frattempo, sono arrivati i primi libri veri: “Infanzia negata”, “Il fantasma in Europa”, il mio primo sulla Bosnia, “Anatomia di un fallimento”, sullo scandalo italiano dei centri di permanenza per migranti, e altri ancora.

Poi a un certo punto ti sei accorto che qualcosa non andava, e hai deciso di diventare un battitore libero…
Mi sono reso conto che il mestiere del giornalista è molto meno avventuroso, romantico, intellettualmente onesto di quanto fin da ragazzo sperassi. Mi sono altresì reso conto di non sopportare più le “veline” del potere e le omertà indotte dai direttori o dagli editori, e allora mi sono guardato dentro e mi sono sentito pronto per il grande salto. L’alternativa era fare il giornalista di redazione per tutta la vita. Non ce l’avrei mai fatta… Ho un carattere e uno spirito d’indipendenza che mi rendono troppo sensibile alle ingiustizie. E non ci sono luoghi più ingiusti delle redazioni…

È nata da qui la casa editrice Infinito edizioni, di cui sei fondatore e direttore editoriale: quali sono le finalità di Infinito edizioni?
Raccontare in piena libertà, senza reticenze e anzi svelandone lati oscuri e problematici, gli eventi del mondo, dal nostro ristretto e provinciale mondo italiano fino al mondo in cui si decide tutto e a quello, invece, in cui tutto si subisce. Diritti umani e civili, politica internazionale, testimonianza e reportage girnalistico: questi i nostri punti di forza. E poca narrativa, ma di alto livello perché molto selezionata.

È per i tipi Infinito che è apparso il tuo reportage “Srebrenica. I giorni della vergogna”. Andiamo con ordine e cominciamo col ricordare, a chi ci legge, che cosa “significa” Srebrenica.
Srebrenica, in pochissime parole, è il luogo in cui si è consumato l’unico genocidio in Europa nel ventesimo secolo dopo la Shoah. È luogo di dolore e di morte, in cui l’ultranazionalismo serbo e serbo-bosniaco e i paramilitari provenienti dalla Serbia hanno torturato e ammazzato – dopo tre anni e mezzo di assedio – tra gli 8.500 e gli 11.000 esseri umani, tutti di provenienza culturale bosniaco-musulmana, quasi tutti maschi, d’età compresa tra dodici e settantasette anni.

Perché il sottotitolo, “I giorni della vergogna”?
Come definire un genicidio e soprattutto il fatto che nessuno abbia fatto nulla per evitarlo, tra l’11 e il 19 luglio 1995? Avremmo potuto scrivere “porcheria”, ma vengogna sembrava più confacente.

Quale scarto c’è tra quel che è successo a Srebrenica e quello che la comunità internazionale – cioè noi – ha compreso?
Lo scarto è enorme, perché una parte molto consistente della comunità internazionale non ha mai neppure saputo e una parte consistente di chi ha saputo non ha capito, innanzitutto perché chi è preposto a piegare certi eventi – ovvero, la stampa – non è stata in grado di farlo, e poi perché da subito è cominciato il “balletto” delle negazioni, delle mistificazioni, delle smentite e delle bugie. Buona parte della stampa internazionale, a cominciare da quella italiana, è rimasta imbrigliata nelle maglie del nazionalismo bosniaco di diversa matrice – musulmano, serbo-ortodosso, croato – e molti giornali si sono messi passivamente a fare i portavoce della parte per la quale simpatizzavano, senza mai cercare di avere un approccio distaccato e indipendente, e spesso senza voler investire i soldi per mandare sul posto un giornalista in grado di capire e spiegare.

Quindi i diritti umani…
A Srebrenica i diritti umani sono stati calpestati senza che nessuno intervenisse e continuano in varia misura a essere anche oggi calpestati. Ieri, nel 1995, perché nessuno intervenne; oggi, nel 2009, perché in pochi, tra i responsabili del genocidio e tra gli assassini di una parte – quella serba – e dell’altra – quella musulmana – hanno pagato. In tanti, troppi, in realtà non pagheranno mai.

E l’Onu?
L’Onu – presente tra il marzo 1993 e il luglio 1995 con circa quattrocento caschi blu a Srebrenica (quando si verificò il genocidio di stanza a Srebrenica c’era il terzo battaglione olandese agli ordini del colonnello Ton Karremans) – è stata a guardare, spaccata come sempre dagli interessi di parte dei suoi membri permanenti. L’Onu così come è diventata non serve più a niente e a nessuno, fuorché a chi vi lavora, percependo lauti stipendi, e a chi, di volta in volta, sa usarne la voce come megafono dei suoi interessi. “L’Onu è morta a Sarajevo”, ha scritto un grande giornalista italiano. L’Onu forse è morta a Srebrenica nel 1995, o magari in Rwanda un anno prima, nell’aprile 1994. In ogni caso, quello che oggi si chiama Onu è un inutile ectoplasma dai costi altissimi, dai tempi burocratici elevatissimi e dalla scarsa efficacia. Un “parlatoio”, fondamentalmente.

Quando hai deciso di scrivere questo libro?
Quando l’incredulità ha lasciato posto al desiderio di approfondire, conoscere, andare sul campo e toccare con mano.

Quanto tempo ci hai lavorato?
L’ho scritto andando sul campo – cosa che faccio ormai da anni – e raccogliendo storie, testimonianze, vicende, e confrontandole col materiale documentale esistente. Quanto tempo esattamente mi sia occorso, non saprei. Di solito, lavoro a più libri insieme, perché un libro ha bisogno di macerare, sedimentare e poi germogliare, lentamente. Normalmente un libro non nasce prima di averci lavorato tre o quattro anni sopra, i primi anni non continuativamente, l’ultimo anno senza respiro.

Quali sono state le maggiori difficoltà?
Sul campo non ce ne sono state di significative, a parte i problemi derivanti dalla lingue, le distanze chilometriche, la necessità di porre le domande e di porsi in unn certo modo, dopo molto avere studiato, approfondito e cercato di capire. L’importante è muoversi con cautela, attenzione e in modo cristallino. Il problema maggiore sono i soldi, perché se ti muovi da indipendente, come nel mio caso, spendi molto meno, ma lo fai in prima persona.

Che scopo avevi?
Capire. Umilmente e sinceramente, capire. Provare ad andare fino al fondo, nel cuore della belva e nel cuore della vittima. Onestamente, credo di aver fatto bene la seconda parte; mi manca ancora qualcosa per completare la prima.

Cos’è per te un reportage?
Potrei risponderti: un genere giornalistico. Sinceramente, le definizioni mi sono sempre state strette. “Srebrenica. I giorni della vergogna” non è un reportage in senso stretto. È un genere ibrido, in parte reportage, in parte saggio storico, in parte analisi antropologica, in buona parte, semplicemente (si fa per dire), lavoro di raccolta di testimonianze sul campo. Parte di questo è reportage, altro no.

Il libro è andato bene, tre edizioni…
Tre e quella in lingua bosniaca in arrivo. Una responsabilità enorme. Uscirà per il più grande editore bosniaco: temo solleverà più di qualche polemica, in Bosnia.

C’è un altro tuo libro molto interessante, “Uomini e belve”, apparso sempre per le edizioni Infinito. Sottotitolo, “Storie dai sud del mondo”. Ecco, cosa sono, e quali sono, “I sud del mondo”?
I Sud del mondo sono molti più di quelli che immaginiamo. Non sono, innanzi tutto, luoghi geografici, come l’Africa, ma sono condizioni umane, fondamentalmente legate all’abbandono, alla sofferenza, all’emarginazione, all’incomprensione. In Italia è pieno di Sud del mondo. Basta fare un giro per Roma o per Milano per rendersene conto. Una volta la povertà, gli homeless, erano una “categoria” lagata ai poveri e poverissimi che, provenienti dall’Est europeo o dall’Africa, andavano a vivere in mezzo alla strada, non di rado impazzendo e, d’inverno, perdendo la vita a causa del freddo. Oggi tantissimi italiani hanno fatto o stanno facendo questa stessa fine e vengono ingoiati da questo Sud del mondo che rimane nascoso, segreto, isolato, ma che pure c’è, ed è sempre più vasto. Vasto eppure ignorato dai nostri potenti, gente che per mesi invade le nostre vite e le nostre anime sproloquiando su una povere ragazza in coma da oltre un decennio, e alla quale non è permesso dall’ipocrisia di una politica senza valori umani di staccare la spina. Ma se, come poi in quell’occasione è accaduto, a Genova un homeless perde la vita a causa del freddo, nessuno spende neppure una parola per quella vita umana spezzata e al massimo diventa una breve nelle pagine interne dei giornali, mentre la sfortunata in coma e gli sciacalli che le girano intorno guadagnano quotidianamente le prime pagine. Ai nostri potenti pare non interessare affatto il problema della povertà, dell’abbandono, della disperazione. Altrimenti, finanziaria dopo finanziaria, non continuerebbero a distruggere i seervizi sociali e lo stato sociale, magari per non far pagare l’Ici al clero o per non infastidire potenti categorie sociali, come il partito dell’evasione fiscale.

Il libro è suddiviso in tre sezioni: “Europa”, “Africa”, “America”. C’è una latitudine dove l’uomo non sia oggetto di dignità negata e di sofferenza?
Non mi risulta, purtroppo. Manca l’Asia, perché altrimenti il libro sarebbe diventato una sorta di enciclopedia. Ma se pensi al destino degli aborigeni in Autralia, ma risposta alla tua domanda è, purtroppo, no.

Quindi, riassumendo, che cos’è “Uomini e belve”?
“Uomini e belve” è un libro che raccoglie tesimonianze da tre continenti sulla doppiezza umana e sulla bestialità di molti comportamenti umani ai danni dei propri simili e dell’ambiente. Come mia abitudine, invece di parlare in prima persona faccio parlare i testimoni oculari, poiché ritengo cher il giornalista non debba ergersi, se non assolutamente necessario, a io narrante ma debba invece farsi vettore delle storie di vita – ovviamente, verificandole con il massimo scrupolo – di cvhi ha il coraggio di parlare, di raccontarsi, di aprirsi al mondo.

Adesso vorrei tornare al giornalismo italiano…
A parte qualche eccezione, è un giornalismo di passascartoffie, di parolai, di prime donne, di gente che ormai fa più attenzione a non pestare piedi che a pestarne, come invece accade ad esempio col vero giornlismo d’inchiesta anglosassone. È un giornalismo sciatto e deludente, che sta precipitando in un baratro senza fondo, in cui ormai i direttori sono passacarte di editori potenti e politicamente sbilanciati, e in cui la politica mette continuamente bocca, non di rado con atteggiamenti discutibili (o con disegni di legge discutibili…). È un giornalismo in decomposizione, con qualche eccezione, un po’ come l’Onu…

Quali sono le differenze tra mondo cartaceo, mondo televisivo e mondo web?
Il mondo televisivo è poco attendibile, poco approfondito, vergognosamente lottizzato o mnanifestamente incline al padrone e attraverso il potere delle immagini ha una inquietante forza manipolatrice. Insomma, è assai poco credibile. Quello cartaceo è condizionato dalla vendita degli spazi pubblicitari e dagli umori dei potenti a cui fa riferimento. Non di rado è strumentale. Quello Web è fresco e dinamico, ma in sovrabbondanza e difficile da verificare. Al contempo vantaggio e svantaggio sono la sua bassa controllabilità, il che sta spingendo i portaborse di regime a escogitare leggi liberticide per mettere il bavaglio anche a Internet. E se ci riuscissero, in questo Paese rimbambito ed egoista, probabilmente nessuno o quasi scenderebbe in piazza.

Essere un giornalista, che cosa significa? O che cosa dovrebbe significare?
Essere libero, indipendente, rispondere innanzitutto alla propria coscienza e avere il coraggio di approfondire e raccontare verità anche scomode, anche pericolose.

Qualcuno che ammiri?
Tanti, soprattutto tra i più vecchi. E la gran parte di loro non fa tv.

E il quotidiano? Lo compri ancora il quotidiano? O hai smesso di crederci?
Lo compro ancora, ma non di rado mi arrabbio. E da tempo non ci credo più, anche se un buon quotidiano resta comunque più attendibile di un telegiornale o di un radiogiornale. Da anni mi alterno tra “Repubblica”, di cui da tempo non riesco più ad apprezzare la pagina degli esteri, per me e per il mio modo di vedere fondamentale, e “Corriere della Sera”, che mai mi ha convinto del tutto. Per altri ho scritto, per questi mai. Il giornalismo è un mondo a parte e certe porte restano sempre sbarrate. Meglio così.