mercoledì 8 aprile 2009

E se Fuad avesse avuto la dinamite?


Nel nuovo libro di Elvira Mujcic le vicende di Visegrad, di una famiglia, di un intero popolo dilaniato e inebetito dalla guerra

“E se Fuad avesse avuto la dimamite?”: sono in molti, soprattutto coloro che hanno vissuto sulla loro pelle la guerra, a chiederselo ancora oggi. “Se quella diga, quella maledetta diga di Visegrad, fosse stata fatta saltare? Che cosa sarebbe successo? Quale ritmo, un simile atto, avrebbe impresso alla guerra in Bosnia Erzegovina?”.
A queste domande, naturalmente, non esiste una risposta ma solo ipotesi, valutazioni, supposizioni, suggestioni. Affascinanti e intense, come questo nuovo libro di Elvira Mujcic, intitolato appunto “E se Fuad avesse avuto la dinamite?”, seconda prova letteraria di un’autrice assai promettente, che ancora una volta, dopo l’ottimo esordio firmato con “Al di là del caos”, torna nella “sua” Bosnia (Elvira da poco è cittadina italiana) per inquadrare e rileggere con rara arguzia e sensibilità uno di quegli episodi storici da molti rimossi, ma decisivi per quelli che furono i destini di un Paese brutalmente aggredito senza che il mondo muovesse mano per proteggerlo.
Centro della vicenda raccontata da Elvira Mujcic nel suo ottimo “E se Fuad avesse avuto la dinamite?” è un paesino sulla Drina. Una minaccia terribile, gli echi di un genocidio, il tempo lungo e indefinito del dopoguerra bosniaco fanno da sfondo al racconto, in cui un nipote e suo zio si districano tra passato e presente, s’inoltrano nei terreni dei rancori famigliari, intrecciano guerra e amore, verità e dubbio, passeggiano attraverso le follie di un popolo inebetito, cristallizzato nell’incubo del conflitto. I due protagonisti del libro, camminando sul filo incerto che divide il nazionalismo e la memoria, sulle tracce di eroi costruiti, menzogne celate e vite stroncate, scavano per trovare risposte al loro bisogno di Storia e di verità.
Un libro intenso, forte, vibrante, quello di Elvira, che qui risponde ad alcune nostre domande su questo suo nuovo sforzo letterario.

Elvira, sono passati due anni dal tuo precedente libro, “Al di là del caos”. Che cosa è cambiato dentro di te, come donna e come scrittrice?
In me in quanto donna è difficile dire quanto e che cosa sia cambiato, visto che non riesco a vedermi da fuori. Sono certa, però, di avere acquistato una maggiore consapevolezza di me e del mio vissuto.
Come scrittrice sono maturata, il mio linguaggio, la capacità espressiva e quella tecnica si sono evoluti. Sono passata da un libro che era una sorta di diario a un’opera più complessa da gestire, almeno a livello strutturale. Ma senza “Al di là del caos”, che è stato allo stesso tempo una terapia e una guarigione, non sarei riuscita a fare dei passi avanti né come donna né come scrittrice.

“E se Fuad avesse avuto la dinamite” ti porta a parlare di nuovo della Bosnia, e in particolare di un episodio pressoché rimosso della guerra, che si svolse a Visegrad. Puoi raccontarcelo. E, in particolare, il Fuad del libro è davvero esistito nella realtà?
Visegrad è una cittadina collocata sulla Drina e, come tutte le città che hanno la sfortuna di trovarsi affacciate su quel confine naturale che separa la Bosnia e la Serbia, è stata luogo di una feroce pulizia etnica. A Visegrad è iniziato e si è concluso tutto nei primi mesi di guerra: dall’aprile al luglio del 1992. Alla fine del mese di luglio la città era etnicamente pulita a danno dei mussulmani. Quasi tutto il lavoro è stato svolto dall’esercito paramilitare serbo, anche se l’iniziale bombardamento sulla città è da imputare all’esercito jugoslavo. Il principale responsabile della pulizia etnica è Milan Lukic, catturato nel 2005 in Argentina. Visegrad è una delle prime città dove inizia la tattica dello stupro etnico e tale pratica non consiste in episodi sporadici, bensì in un’operazione ben organizzata.
Fuad è una persona realmente esistente. Si chiama Murat Sabanovic e l’episodio della diga che avrebbe dovuto far esplodere è assolutamente reale. Infatti il libro si apre con un prologo che è l’esatta trascrizione di un telegiornale bosniaco dell’8 aprile 1992.


Protagonista del libro è in realtà Zlatan, un giovane che decide di tornare sui suoi passi, dall’Italia in Bosnia, per capire. Co-protagonista è lo zio di Zlatan, mentre sullo sfondo aleggia un Paese in crisi, dilaniato, e la figura di Fuad. Puoi descrivere i due personaggi principali del libro e relazionarli con la realtà dei bosniaci odierni?
Zlatan e lo zio sembrano essere agli antipodi, però lo sono uno agli occhi dell’altro e non in realtà. Zlatan è figlio di due nostalgici della Jugoslavia, lo zio è la pecora nera della famiglia, bollato come nazionalista. In realtà Zlatan è un ragazzo che fa fatica a prendere parte, tende a impegnarsi per capire ogni posizione. In realtà anche lo zio fa fatica a prendere le parti però reagisce cercando, scoprendo, indagando e facendosi domande sul macello jugoslavo. Questi due personaggi sono le due parti contrastanti di me stessa, perché conoscendo la Jugoslavia e avendo un po’ di spirito critico non mi sono mai accontentata di una sola verità. In questa Bosnia odierna dove bisogna scegliere con chi stare, i miei due protagonisti si innalzano verso qualcosa di molto più difficile, ma molto più puro.

La figura della nonna, ora comica ora straziante, è l’unica figura femminile delineata profondamente in un libro molto al maschile.
La nonna è un personaggio quasi surreale, eppure è una nonna esistente. Surreale è il dolore che le è stato inflitto e che non ha saputo superare. La figura della nonna è molto importante perché è essa stessa una sorta di rappresentazione della Bosnia, della sua storia e dell’incapacità di rimarginare le ferite, ma solo di lasciarsi abbandonare alla follia.

È stato difficile scrivere al maschile e perché questa scelta?
Certo, è stato difficile perché non sono un uomo e riuscire a non pensare da donna è davvero dura. Ho scelto di scrivere al maschile perché volevo distaccarmi dal mio libro precedente, non volevo che le persone si affezionassero all’autrice perché attraverso quel libro l’hanno conosciuta appieno.

In realtà quanto di Elvira Mujcic c’è, in questo lavoro?
Ovviamente c’è moltissimo di me. Sono convinta che non si possa scrivere altro se non quel che si conosce. Si possono leggere trattati sulle emozioni ma se non le si prova non le si può raccontare. Per scrivere questo libro ho dovuto fare ricerca, scoprire, andare a toccare con mano cose che non conoscevo, ho dovuto farle diventare mie per poterle dire e allora non posso non dire che moltissimo in questo libro e in questi protagonisti è mio.

La Bosnia per te continuerà a essere fonte di ispirazione o nei prossimi anni ti misurerai con altre realtà?
Quando penso a scrivere non penso di voler scrivere di Bosnia. Dopo “Al di là del caos” non volevo scrivere di guerra, volevo fare qualcos’altro. Il fatto è che è stata la Bosnia stessa a impormisi, perché non è la mia ispirazione ma il mio enigma esistenziale da risolvere. Credo, quindi, che fino a quando la Bosnia vorrà turbarmi con i suoi dubbi, io non potrò scrivere di altro.

Come vive oggi Elvira in Italia e come vivono tanti come te che, arrivati ormai da più di dieci anni in questo Paese, continuano a essere trattati da una politica cieca e ignorante ora come ingombri, ora come pericoli, ora, semplicemente, come numeri?
Dopo 16 anni di vita in Italia, giusto il mese scorso sono stata premiata con la cittadinanza italiana. Un lungo iter di burocrazie e pregiudizi e paure sembra essersi concluso. Vivere in Italia da straniero diventa sempre più difficile, spesso anche insopportabile. Il problema più grande è il fatto di essere sempre usati come capro espiatorio di ogni emergenza sociale, politica o economica e la questione più urgente sarebbe riconoscere che oltre ad avere doveri, dovremmo anche avere dei diritti, perché è difficile vivere per 16 anni in un Paese, dare il proprio contributo economico, sociale e culturale ed essere comunque trattati come cittadini di serie B.

Un sogno nel cassetto?
Mi piacerebbe in un futuro vicino riuscire a concludere due lavori ai quali tengo: uno è una raccolta di poesie e l’altro un saggio sull’informazione nella Jugoslavia dal 1943 ai giorni nostri.