sabato 24 gennaio 2009

Domenica 25 gennaio, Giornata mondiale dei malati di lebbra


Intervista a suor Marcela Lopez sul male di Hansen e sulla sua missione in Ituri

Suor Maria Marcela Lopez ha quarant’anni e un sorriso timido. Figlia della Carità Canossiana, dal 2002 compie la sua missione nella Repubblica Democratica del Congo come direttrice del centro di sanità di Ariwara, nel progetto di Ituri (Congo orientale). Ha lasciato la sua Argentina per un Paese in guerra, in cui negli ultimi dieci anni il reiterarsi dei conflitti e degli interessi economici delle potenze mondiali ha provocato un genocidio, calcolato in circa cinque milioni di vittime in tutto l’enorme Paese, i quattro quinti delle quali nella ricca e disgraziata regione del Kivu.

L’incontro con suor Marcela nasce grazie all’Associazione italiana Amici di Raoul Follereau (AIFO – www.aifo.it), in occasione della 56esima giornata mondiale dei malati di lebbra, celebrata il 25 gennaio 2009.
Malattia assai antica – per alcuni forse addirittura la più antica che abbia mai colpito l’uomo – e oggi considerata rara (a torto), la lebbra deve il suo nome al termine greco “lepròs” (scabroso). Proveniente forse dall’India, forse dall’Africa, la lebbra è provocata dal batterio denominato Mycobacterium leprae (conosciuto anche come Bacillo di Hansen, dal nome del medico norvegese che lo scoprì nel 1873, permettendo di scoprire la cura). Proprio per evitare lo stigma che questo male porta con sé, si preferisce chiamare oggi la lebbra “morbo di Hansen” o “Hanseniasi”. Ma ciò non toglie il fatto che, pur essendo ormai facilmente guaribile e prevenibile, in particolare grazie alla cura dell’igiene e dell’alimentazione, ancora oggi circa 250.000 persone ogni anno contraggano quella che una volta era considerata un’incurabile “maledizione di Dio”, nel silenzio più assoluto e colpevole dei media e nel disinteresse dei governi e delle multinazionali che pure, nei luoghi in cui maggiore è l’incidenza di malati (Africa e Asia) non lesinano impegno e cura certosina nel saccheggio sistematico delle risorse autoctone e nelle violazioni anche dei più elementari diritti umani, primo fra tutti quello alla vita.

L’AIFO si segnala ormai da decenni per il suo lavoro instancabile a sostegno dei malati di lebbra, nonostante la cronica mancanza di fondi. Lo stesso Benedetto XVI ha riconosciuto i meriti dell’associazione e molti sono i religiosi impegnati nel sostegno e nella cura, a volte disperata, di questi ennesimi ultimi del mondo. Suor Marcela è tra loro e a lei dobbiamo la cortesia di averci rilasciato l’intervista che segue.

Suor Marcela, la lebbra per un europeo appare come una malattia lontana nel tempo e rievoca il nostro Medioevo, tempi considerati spesso bui e dolorosi. Pare incredibile che oggi possano esservi persone che contraggono la lebbra, su questo nostro pianeta. Lei invece è qui a spiegarci il contrario, a sfatare un’ennesima visione eurocentrica e distorta del mondo e della vita. Quanto è diffusa oggi la lebbra nel mondo e chi colpisce?
La lebbra è ancora molto diffusa in tante parti del mondo: Africa, India, Brasile e molti altri posti. È vero: pare impossibile che ci sia, ma sappiamo bene che nel mondo c’è chi ha tutto e chi non ha niente, e la gente colpita è sempre la più povera e la più misera, quella che non ha l’opportunità di avere una casa in cui mangiare, un posto dove lavorare e pensare a una vita più dignitosa. Ogni anno ci sono 250.000 nuovi malati nel mondo. Nei nostri lebbrosari in Ituri, nella Repubblica democratica del Congo, abbiamo 30 casi ogni anno.

Quali sono le cause principali che portano alla contrazione della malattia?
Innanzitutto e assolutamente la povertà, perché le vittime della lebbra non hanno quelle che noi consideriamo le strutture, o i mezzi di base per sopravvivere, come l’acqua potabile, i servizi igienici, la casa, un’alimentazione decente e così via. Questo determina la diffusione della malattia.

Quali parti del corpo attacca e come la si cura?
La si cura con medicine che permettono la guarigione completa in pochi mesi. La malattia comincia con la perdita di sensibilità in una parte del corpo. L’insensibilità causa poi le mutilazioni. Tante persone colpite vivono però lontane, nella selva, e a causa della guerra e della mancanza di mezzi di trasporto e di comunicazione non siamo in grado di raggiungerle e salvarle. La lebbra avanza dunque quando è impossibile curarla e molto spesso chi ne è afflitto riesce a cominciare il trattamento farmacologico quando ha già cominciato a subire mutilazioni fisiche.

È un male doloroso?
Più che il dolore fisico, quello che fa soffrire è il dolore psicologico, morale. Ci sono anche casi di lebbra multibacillare, che provocano dolore fisico in tutto il corpo, ma da noi in Ituri sono pochi e in generale non sono così diffusi.

Parlavamo del dolore. Quali conseguenze fisiche e psicologiche lascia la lebbra in chi ne è stato colpito?
La gente del posto spesso non accetta la reintegrazione del malato di lebbra. Avevamo una piccola azienda, costruita con l’aiuto dell'AIFO per la macinazione del grano e la produzione di farina. Quest’attività permetteva ai malati di lebbra di produrre reddito e rendersi autonomi, ma siamo stati costretti a chiuderla perché i padroni del luogo in cui sorgeva l’azienda ci hanno cacciati, in quanto non volevano che i malati di lebbra si riscattassero socialmente. Ora quindi dobbiamo trovare un nuovo posto per riavviare quest’attività e ricominciare il progetto.

La cosa che più sconvolge è che anche i bambini si ammalino. In quale modo sarebbe possibile evitare che si contragga il male?
Avere una vita più dignitosa, un posto con acqua potabile, luoghi puliti in cui vivere, cibo adeguato, istruzione. Il problema principale è la miseria. Per esempio, abbiamo aperto dei pozzi da cui prendere acqua pulita: questo è stato importantissimo per prevenire la diffusione della lebbra e delle altre malattie.

Lei da alcuni anni svolge la sua missione nell’Ituri, ricca ma sventurata regione orientale della Repubblica democratica del Congo. Che cosa l’ha spinta a lasciare la sua Argentina e come ha accolto dentro di sé il compito gravoso che le è stato riservato?
La mia passione è nata quando avevo 9 anni. Volevo essere missionaria in Africa e, credo giustamente, pensai ai lebbrosi, perché quando ero piccola mi mostravano immagini che ritraevano persone che avevano contratto la lebbra. Vidi ‘'isola di Molokai, conobbi le suore canossiane e queste ultime fecero crescere in me questo desiderio di andare in missione. Quando dissi che volevo andare in Congo mi dissero: “Sei pazza! In Congo c'è la guerra e la povertà”. Io risposi: “Sì è vero, c'è la guerra e la povertà. Ma per morire, si muore ovunque: posso attraversare la strada ed essere investita. Morirei lo stesso. Anche la povertà è una cosa dura. All'inizio è stato difficile per me adattarmi: la sera dovevo lavarmi con un secchio di cinque litri di acqua, che dovevano bastarmi anche per la mattina dopo. Ma questo desiderio di donarmi, di fare in modo che qualcun altro possa avere il minimo indispensabile, godere di una vita più libera, mi ha spinto a fare questa scelta. Mi ha aiutato molto condividere la sventura degli altri. È difficile, ma non mi è venuta mai meno la gioia di donarmi. Oggi non è mai impossibile amare. C'è sempre l'amore di Dio e la vita che ci unisce. E questo è vero sempre, anche se tu sei nero e io sono bianca, se parli francese e io parlo spagnolo.

Può descriverci le condizioni di vita, spesso penose, delle persone dell’Ituri, quali sono le cause di queste condizioni di vita e perché contraggano la lebbra?
L'Ituri è afflitto dalla guerra e dalla guerriglia. Ogni anno la violenza provoca tanti morti; molte persone perdono tutto quello che hanno, e ogni giorno devono scappare, ricominciare tutto, perché magari vanno nei campi a lavorare e alla sera, quando rientrano, trovano la casa bruciata. La gente dell'Ituri ha sempre il sorriso sulle labbra e non smette mai di sperare in un futuro migliore. Nonostante tutto questo.

Di quanto denaro e di quali strumenti e medicamenti avreste bisogno per poter svolgere al meglio il vostro compito?
Ci manca un mezzo di trasporto. Non abbiamo l'ambulanza. I due lebbrosari che gestiamo sono lontani fra loro. Non abbiamo mezzi per raggiungere i villaggi lontani, dove spesso ci sono casi di lebbra nascosti, non diagnosticati. Abbiamo solo una motoretta che usiamo io, il medico e il coordinatore. Spesso mancano molte medicine: quelle per la lebbra le abbiamo, ma molte altre mancano. Abbiamo tante altre malattie contro cui lottare: la malaria, il tifo, la tubercolosi, l'HIV. Ogni settimana abbiamo 30/40 casi di tubercolosi. Vorremmo andare a domicilio a visitare le persone per scoprire i casi nascosti di lebbra, ma nei villaggi più sperduti non possiamo arrivare né loro arrivano da noi. Per questo ci serve un nuovo mezzo di trasporto.

Quale messaggio sente di lasciare a chi ci legge e che cosa può fare ciascuno di noi per aiutare lei, AIFO e chiunque altro sia attivo nella lotta contro questo male?
Sono riconoscente all'AIFO e al pubblico italiano per la sua grande e costante generosità. Stiamo facendo tante cose grazie a questa vostra generosità. Possiamo fare tante cose: siamo riusciti per esempio a usare le sorgenti d'acqua, perché tanti bambini morivano a causa dell'acqua contaminata. Grazie all'AIFO abbiamo potuto costruire in tre villaggi un pozzo per accedere all'acqua pulita e anche per il lebbrosario questo è importantissimo. Abbiamo fatto due pozzi in ognuno dei due lebbrosari e questo ci ha permesso di salvare la vita a tante persone, che oggi possono bere acqua pulita.
Dobbiamo pensare che non è impossibile per ognuno lasciare qualche cosa perché un altro possa avere un sorriso o un giorno in più di vita, o un minuto in più di sollievo. Non tutti possiamo andare in Africa ad aiutare, ma tutti possiamo dare una mano sia materiale che spirituale per sostenere questa gente che mai ha visto una casa con il pavimento o un rubinetto da cui esce acqua corrente. Soprattutto dobbiamo pensare ai bambini, perché sono il nostro futuro, il futuro dell'umanità.