martedì 27 gennaio 2009

In ricordo della Shoah e degli altri genocidi


Il 27 gennaio 1945 – appena 64 anni fa – le truppe sovietiche dell’Armata Rossa entravano nel campo di sterminio nazista di Auschwitz e rivelavano al mondo uno degli abomini compiuti da Adolf Hitler e dai suoi (largamente impuniti) genocidi. Perché a Norimberga troppi furono gli assenti, tra i colpevoli, ormai trasferitisi in America Latina con responsabilità politiche rilevanti di molti governanti, non solo sudamericani.

Oggi in tutto il mondo si celebra quella data, ripromettendoci che “non accadrà mai più”.

A quasi tredici lustri di distanza, purtroppo, il negazionismo estremista nero non ha cessato di negare l’evidenza. Oggi la strategia è almeno in parte mutata: si cerca non tanto più di negare la Shoah quanto di modificarne al ribasso i dati numerici, per svilirla, ridimensionarla e, in definitiva, negarla in modo più sottile ma non meno disgustoso. Gli ultimi “studi” del negazionismo più gretto oggi tendono a fissare in 1,5 milioni le vittime del genocidio, sottolineando che probabilmente “le cifre andranno riviste al ribasso”. Non c’è limite all’abominio umano, insomma, neppure di fronte alle immagini, alle testimonianze degli ultimi sopravvissuti ancora in vita, agli studi storici – quelli veri.

Il clima politico mondiale – e nazionale – sospinge verso questi estremi, incurante della tragedia di bambini, donne e uomini che il nazismo volle brutalmente torturare e uccidere in massa, con la complicità dei suoi alleati, primi fra tutti i fascisti d’Italia.

Fa male ammettere che in un passato assai recente l’Italia dei Savoia e di Benito Mussolini si macchiò dell’infamia delle leggi razziali, delle deportazioni, dei campi di concentramento e di sterminio. Eppure andò così, e mai abbastanza tutti potremo chiedere scusa per il crimine orribile di cui questo Paese e la sua classe governante (una dittatura) di allora si è macchiato. E senza dimenticare le responsabilità vaticane, storicamente rilevate e rilevanti.

Il 27 gennaio di ogni anno, però, oltre a essere una data che simbolicamente ricorda la mostruosità di Aushwitz e degli altri campi di sterminio nazisti, rappresenta un’occasione importante per non dimenticare anche gli altri genocidi che hanno segnato l’umanità.

È spaventoso, se ci pensate, constatare che i genocidi più spaventosi della storia sono stati commessi nell’arco dell’ultimo secolo.

Prima della Shoah e del genocidio di sei milioni di ebrei, rom (il secondo gruppo numericamente più colpito dai nazisti), oppositori politici, omosessuali, ci fu ad esempio il genocidio degli armeni o Grande Male. In particolare il cosiddetto “secondo massacro armeno”, compiuto dai Giovani Turchi con la bassa manovalanza di gruppi kurdi, vide tra il 1915 e il 1916 centinaia di migliaia di morti, interrati in fosse comuni. Il genocidio armeno si ricorda il 24 aprile di ogni anno, ma per lo più viene fatto passare sotto silenzio. Troppo forti gli interessi che l’Europa nutre verso la Turchia, per ricordare una pagina nera della storia turca, che provocò circa 1,2 milioni di morti. Il tutto si riduce, dunque, a un balletto di cifre nazionaliste, con i turchi che sminuiscono il dato numerico, parlando di circa 200.000 morti, e gli armeni che lo gonfiano fino a 2,4-2,5 milioni. Il nazionalismi: la peste europea.

Dopo la Shoah è bene ricordare, tra gli altri, il genocidio cambogiano, consumatosi tra il 1975 e il 1979 ai danni degli oppositori politici di Pol Pot e dei Khmer Rossi, poi semplicemente di tutta la popolazione, con almeno 1,5 milioni di morti e un Paese ridotto sotto ogni punto di vista in ginocchio.

Neanche vent’anni dopo fu la volta del genocidio ruandese del 1994, con circa 800.000 morti vittime della propaganda mediatica e degli interessi economici e politici di pochi. E tra il 1992 e il 1995 si consumò quello bosniaco, con la Bosnia Erzegovina ridotta un cumulo di macerie dall’aggressione serba e serbo bosniaca e, anche qui, il balletto macabro delle vittime: qualche decina di migliaia per la parte ortodossa, 250.000 per quella musulmana, a oggi convenzionalmente fissate in 100.000, cifra probabilmente destinata a essere rivista in crescita.

Nel mattatoio bosniaco una pagina a parte, grondante sangue e vergogna, è quella di Srebrenica, laddove criminali di guerra come Ratko Mladic, Arkan, Vojislav Seselj, nell’impotenza dei caschi blu e della comunità internazionale, si macchiarono della tortura e del genocidio di un numero non inferiore a 8.500 e non superiore a 12.500 persone, quasi tutti maschi bosniaci di appartenenza culturale musulmana, di età compresa tra 12 e 77 anni, con lo scopo preciso di “serbizzare” l’area e di cancellare anche il solo ricordo del passaggio di musulmani nella “serba Srebrenica”. Il nazionalismo, appunto: la peste dell’ultimo secolo.

Oggi, nel silenzio e nel disinteresse generale, la falce grondante sangue miete vittime a milioni nella Repubblica democratica del Congo, e in particolare nella regione orientale del Kivu. Qui sono almeno 4 milioni le vittime della barbarie, un’inciviltà che ha le mani sporche di dollari, quelli che fruttano dalla raccolta e dal commercio spesso abusivo di coltan, oro, platino, legname pregiato, petrolio…

La Memoria è un dono e una risorsa che va curata e coltivata non per promuovere vendetta e divisione ma per ricordare e riappacificare. La Memoria serve per non far cadere nell’oblio innanzitutto l’evidenza della fallacità e della debolezza umana, per rammentare a tutti noi che il razzismo è una bestia cattiva che sa annidarsi negli animi di chiunque, a ogni angolazione.

Il ricordo della Shoah non può essere cancellato o rimosso da nessun negazionismo; le responsabilità storiche e umane vanno attribuite e riconosciute, e le colpe espiate. Perché, secondo l’insegnamento basilare del premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel, “non può esservi pace senza giustizia”. Sia così per il genocidio degli ebrei come per gli altri genocidi. E la politica abbia il buon senso e il buon gusto di esimersi dalle strumentalizzazioni, che ingenerano solo odio e astio, ma si limiti a rispettare il dolore e ad adoperarsi per fare sì che davvero, in tutto il mondo, pagine come quelle di cui abbiamo accennato non accadano mai più. Mai più.

Forse sarebbe sufficiente prevedere per legge che ogni politico eletto in ogni Paese de mondo si rechi in visita ad Aushwitz e nel centro commemorativo di Tuzla, in Bosnia, in cui gli antropolologi forensi stanno cercando di ridare un nome a migliaia e migliaia di persone fatte a pezze e gettate nelle fosse comuni, per avere un mondo più attento ai diritti umani e civili. Chi lo sa: forse oggi non avremmo le tragedie dell’Iraq, del Tibet, dell’Uganda del nord, del Kivu. O forse…

Per approfondire sul Cassetto.it: La Shoah dalla A alla Z

sabato 24 gennaio 2009

Domenica 25 gennaio, Giornata mondiale dei malati di lebbra


Intervista a suor Marcela Lopez sul male di Hansen e sulla sua missione in Ituri

Suor Maria Marcela Lopez ha quarant’anni e un sorriso timido. Figlia della Carità Canossiana, dal 2002 compie la sua missione nella Repubblica Democratica del Congo come direttrice del centro di sanità di Ariwara, nel progetto di Ituri (Congo orientale). Ha lasciato la sua Argentina per un Paese in guerra, in cui negli ultimi dieci anni il reiterarsi dei conflitti e degli interessi economici delle potenze mondiali ha provocato un genocidio, calcolato in circa cinque milioni di vittime in tutto l’enorme Paese, i quattro quinti delle quali nella ricca e disgraziata regione del Kivu.

L’incontro con suor Marcela nasce grazie all’Associazione italiana Amici di Raoul Follereau (AIFO – www.aifo.it), in occasione della 56esima giornata mondiale dei malati di lebbra, celebrata il 25 gennaio 2009.
Malattia assai antica – per alcuni forse addirittura la più antica che abbia mai colpito l’uomo – e oggi considerata rara (a torto), la lebbra deve il suo nome al termine greco “lepròs” (scabroso). Proveniente forse dall’India, forse dall’Africa, la lebbra è provocata dal batterio denominato Mycobacterium leprae (conosciuto anche come Bacillo di Hansen, dal nome del medico norvegese che lo scoprì nel 1873, permettendo di scoprire la cura). Proprio per evitare lo stigma che questo male porta con sé, si preferisce chiamare oggi la lebbra “morbo di Hansen” o “Hanseniasi”. Ma ciò non toglie il fatto che, pur essendo ormai facilmente guaribile e prevenibile, in particolare grazie alla cura dell’igiene e dell’alimentazione, ancora oggi circa 250.000 persone ogni anno contraggano quella che una volta era considerata un’incurabile “maledizione di Dio”, nel silenzio più assoluto e colpevole dei media e nel disinteresse dei governi e delle multinazionali che pure, nei luoghi in cui maggiore è l’incidenza di malati (Africa e Asia) non lesinano impegno e cura certosina nel saccheggio sistematico delle risorse autoctone e nelle violazioni anche dei più elementari diritti umani, primo fra tutti quello alla vita.

L’AIFO si segnala ormai da decenni per il suo lavoro instancabile a sostegno dei malati di lebbra, nonostante la cronica mancanza di fondi. Lo stesso Benedetto XVI ha riconosciuto i meriti dell’associazione e molti sono i religiosi impegnati nel sostegno e nella cura, a volte disperata, di questi ennesimi ultimi del mondo. Suor Marcela è tra loro e a lei dobbiamo la cortesia di averci rilasciato l’intervista che segue.

Suor Marcela, la lebbra per un europeo appare come una malattia lontana nel tempo e rievoca il nostro Medioevo, tempi considerati spesso bui e dolorosi. Pare incredibile che oggi possano esservi persone che contraggono la lebbra, su questo nostro pianeta. Lei invece è qui a spiegarci il contrario, a sfatare un’ennesima visione eurocentrica e distorta del mondo e della vita. Quanto è diffusa oggi la lebbra nel mondo e chi colpisce?
La lebbra è ancora molto diffusa in tante parti del mondo: Africa, India, Brasile e molti altri posti. È vero: pare impossibile che ci sia, ma sappiamo bene che nel mondo c’è chi ha tutto e chi non ha niente, e la gente colpita è sempre la più povera e la più misera, quella che non ha l’opportunità di avere una casa in cui mangiare, un posto dove lavorare e pensare a una vita più dignitosa. Ogni anno ci sono 250.000 nuovi malati nel mondo. Nei nostri lebbrosari in Ituri, nella Repubblica democratica del Congo, abbiamo 30 casi ogni anno.

Quali sono le cause principali che portano alla contrazione della malattia?
Innanzitutto e assolutamente la povertà, perché le vittime della lebbra non hanno quelle che noi consideriamo le strutture, o i mezzi di base per sopravvivere, come l’acqua potabile, i servizi igienici, la casa, un’alimentazione decente e così via. Questo determina la diffusione della malattia.

Quali parti del corpo attacca e come la si cura?
La si cura con medicine che permettono la guarigione completa in pochi mesi. La malattia comincia con la perdita di sensibilità in una parte del corpo. L’insensibilità causa poi le mutilazioni. Tante persone colpite vivono però lontane, nella selva, e a causa della guerra e della mancanza di mezzi di trasporto e di comunicazione non siamo in grado di raggiungerle e salvarle. La lebbra avanza dunque quando è impossibile curarla e molto spesso chi ne è afflitto riesce a cominciare il trattamento farmacologico quando ha già cominciato a subire mutilazioni fisiche.

È un male doloroso?
Più che il dolore fisico, quello che fa soffrire è il dolore psicologico, morale. Ci sono anche casi di lebbra multibacillare, che provocano dolore fisico in tutto il corpo, ma da noi in Ituri sono pochi e in generale non sono così diffusi.

Parlavamo del dolore. Quali conseguenze fisiche e psicologiche lascia la lebbra in chi ne è stato colpito?
La gente del posto spesso non accetta la reintegrazione del malato di lebbra. Avevamo una piccola azienda, costruita con l’aiuto dell'AIFO per la macinazione del grano e la produzione di farina. Quest’attività permetteva ai malati di lebbra di produrre reddito e rendersi autonomi, ma siamo stati costretti a chiuderla perché i padroni del luogo in cui sorgeva l’azienda ci hanno cacciati, in quanto non volevano che i malati di lebbra si riscattassero socialmente. Ora quindi dobbiamo trovare un nuovo posto per riavviare quest’attività e ricominciare il progetto.

La cosa che più sconvolge è che anche i bambini si ammalino. In quale modo sarebbe possibile evitare che si contragga il male?
Avere una vita più dignitosa, un posto con acqua potabile, luoghi puliti in cui vivere, cibo adeguato, istruzione. Il problema principale è la miseria. Per esempio, abbiamo aperto dei pozzi da cui prendere acqua pulita: questo è stato importantissimo per prevenire la diffusione della lebbra e delle altre malattie.

Lei da alcuni anni svolge la sua missione nell’Ituri, ricca ma sventurata regione orientale della Repubblica democratica del Congo. Che cosa l’ha spinta a lasciare la sua Argentina e come ha accolto dentro di sé il compito gravoso che le è stato riservato?
La mia passione è nata quando avevo 9 anni. Volevo essere missionaria in Africa e, credo giustamente, pensai ai lebbrosi, perché quando ero piccola mi mostravano immagini che ritraevano persone che avevano contratto la lebbra. Vidi ‘'isola di Molokai, conobbi le suore canossiane e queste ultime fecero crescere in me questo desiderio di andare in missione. Quando dissi che volevo andare in Congo mi dissero: “Sei pazza! In Congo c'è la guerra e la povertà”. Io risposi: “Sì è vero, c'è la guerra e la povertà. Ma per morire, si muore ovunque: posso attraversare la strada ed essere investita. Morirei lo stesso. Anche la povertà è una cosa dura. All'inizio è stato difficile per me adattarmi: la sera dovevo lavarmi con un secchio di cinque litri di acqua, che dovevano bastarmi anche per la mattina dopo. Ma questo desiderio di donarmi, di fare in modo che qualcun altro possa avere il minimo indispensabile, godere di una vita più libera, mi ha spinto a fare questa scelta. Mi ha aiutato molto condividere la sventura degli altri. È difficile, ma non mi è venuta mai meno la gioia di donarmi. Oggi non è mai impossibile amare. C'è sempre l'amore di Dio e la vita che ci unisce. E questo è vero sempre, anche se tu sei nero e io sono bianca, se parli francese e io parlo spagnolo.

Può descriverci le condizioni di vita, spesso penose, delle persone dell’Ituri, quali sono le cause di queste condizioni di vita e perché contraggano la lebbra?
L'Ituri è afflitto dalla guerra e dalla guerriglia. Ogni anno la violenza provoca tanti morti; molte persone perdono tutto quello che hanno, e ogni giorno devono scappare, ricominciare tutto, perché magari vanno nei campi a lavorare e alla sera, quando rientrano, trovano la casa bruciata. La gente dell'Ituri ha sempre il sorriso sulle labbra e non smette mai di sperare in un futuro migliore. Nonostante tutto questo.

Di quanto denaro e di quali strumenti e medicamenti avreste bisogno per poter svolgere al meglio il vostro compito?
Ci manca un mezzo di trasporto. Non abbiamo l'ambulanza. I due lebbrosari che gestiamo sono lontani fra loro. Non abbiamo mezzi per raggiungere i villaggi lontani, dove spesso ci sono casi di lebbra nascosti, non diagnosticati. Abbiamo solo una motoretta che usiamo io, il medico e il coordinatore. Spesso mancano molte medicine: quelle per la lebbra le abbiamo, ma molte altre mancano. Abbiamo tante altre malattie contro cui lottare: la malaria, il tifo, la tubercolosi, l'HIV. Ogni settimana abbiamo 30/40 casi di tubercolosi. Vorremmo andare a domicilio a visitare le persone per scoprire i casi nascosti di lebbra, ma nei villaggi più sperduti non possiamo arrivare né loro arrivano da noi. Per questo ci serve un nuovo mezzo di trasporto.

Quale messaggio sente di lasciare a chi ci legge e che cosa può fare ciascuno di noi per aiutare lei, AIFO e chiunque altro sia attivo nella lotta contro questo male?
Sono riconoscente all'AIFO e al pubblico italiano per la sua grande e costante generosità. Stiamo facendo tante cose grazie a questa vostra generosità. Possiamo fare tante cose: siamo riusciti per esempio a usare le sorgenti d'acqua, perché tanti bambini morivano a causa dell'acqua contaminata. Grazie all'AIFO abbiamo potuto costruire in tre villaggi un pozzo per accedere all'acqua pulita e anche per il lebbrosario questo è importantissimo. Abbiamo fatto due pozzi in ognuno dei due lebbrosari e questo ci ha permesso di salvare la vita a tante persone, che oggi possono bere acqua pulita.
Dobbiamo pensare che non è impossibile per ognuno lasciare qualche cosa perché un altro possa avere un sorriso o un giorno in più di vita, o un minuto in più di sollievo. Non tutti possiamo andare in Africa ad aiutare, ma tutti possiamo dare una mano sia materiale che spirituale per sostenere questa gente che mai ha visto una casa con il pavimento o un rubinetto da cui esce acqua corrente. Soprattutto dobbiamo pensare ai bambini, perché sono il nostro futuro, il futuro dell'umanità.

mercoledì 21 gennaio 2009

La misteriosa arte della didascalia



Emina Gegić, autrice per Infinito edizioni dell’ottimo manuale in due lingue (italiano e bosniaco) dal titolo “Dida. La didascalia nel testo drammatico / Didaskalija u dramskom tekstu”, ha presentato recentemente il suo lavoro a Brcko e a Sarajevo, in Bosnia Erzegovina, ottenendo un grande successo di pubblico e di critica. Le abbiamo posto alcune domande sul suo libro, che può fregiarsi di una doppia prefazione scritta da uno dei più grandi drammaturghi bosniaci, Darko Lukić, e da uno dei più famosi specialisti del settore italiani, Maurizio Schmidt.

D. Emina, la prima cosa che un lettore non preparato nella materia si chiede, leggendo un libro come “Dida”, è: qual è l’utilità di un simile lavoro?R. Credo che un lettore non preparato nella materia, difficilmente potrebbe decidere di leggere questo libro e tanto meno, una volta letto, di scoprire la sua utilità. A discapito delle mie tasche, Dida mira ad un target abbastanza ristretto poiché è scritto principalmente per gli appassionati della scrittura teatrale, cinematografica e televisiva, con lo scopo di perfezionare la loro tecnica.

D. Il tuo è un libro solo per “tecnici” o è consigliabile anche al pubblico più ampio, ad esempio quello che frequenta i teatri come spettatore o addirittura il cinema?R. Oltre ai drammaturghi, sceneggiatori e autori televisivi, credo che Dida potrebbe facilmente suscitare l’interesse di tutti i componenti delle troupe artistiche, come registi, attori, scenografi, coreografi, costumisti ecc. perché, alla fine della storia, noi scrittori scriviamo le didascalie proprio per loro. Dunque Dida mira a tutti quelli che fanno teatro, o cinema.

E gli spettatori?R. Temo che Dida non entri nelle sfere di loro interesse. Ecco un esempio per spiegarmi al meglio. Quando siamo influenzati, andiamo in farmacia per prendere le medicine che ci occorrono per farci stare meglio ma, se non siamo del settore farmaceutico, difficilmente compriamo libri che parlano delle ultime ricerche sul settore. Insomma, è un libro tecnico.

D. Puoi mostrarci, attraverso un esempio pratico, l’utilità della didascalia?R. Immaginiamo di stare comodamente seduti nella platea di un teatro. Stiamo ammirando una scena dello spettacolo teatrale intitolato “L’ultimo okiya”. Guardiamo la scena dove cinque geisha, vestite con i loro costumi tradizionali, si stanno esibendo per un uomo d’affari occidentale che, tra l’altro, suscita il nostro interesse poiché indossa guanti e stivali del tutto particolar,. ignifughi. Una delle cinque geisha suona per lui lo Shamisen, strumento musicale a tre corde; l’altra, la più bassa di tutte, canta meravigliosamente un’aria tradizionale, mentre le tre restanti ballano con i loro ventagli.
All’improvviso, notiamo che il pavimento sotto i piedi delle geisha comincia a cambiare colore e forma. A tal seguito, le geisha si deconcentrano, si guardano tra loro, perdono un po’ della loro bellezza nel movimento e nella coordinazione, ma non smettono affatto di esibirsi. Passano i minuti e la pavimentazione si scalda a tal punto da diventare rossa, molliccia e bollente. Apprendiamo che i piedi delle geisha si stanno ustionando e che l’uomo d’affari ride, contento della sua impresa. Le geisha, in preda al panico, cercano di fuggire dalla sala, ma trovano chiuse tutte le porte. Quando la temperatura diventa insopportabile, l’uomo d’affari, senza mai smettere di ridere, schiaccia un bottone e apre una porticina incorporata nella pavimentazione. Fugge chiudendo a chiave la porta dietro di sé. Le geisha cercando di riaprirla, ma nulla da fare. Restano chiuse nella sala incandescente, senza via d’uscita. Urla. Il volume della musica aumenta sempre di più mentre cala il buio sul palcoscenico.

Ecco, questa è, più o meno, la descrizione di quel che abbiamo visto. Dobbiamo però pensare che, prima di una messa in scena, un drammaturgo ha dovuto scrivere, strutturare tutto ciò che andava rappresentato sul palco. È dovuto cioè ricorrere all’uso della didascalia poiché il testo non prevede né monologhi né dialoghi. Noi ora abbiamo descritto la scena dal punto di vista di uno spettatore, in maniera postuma, senza seguire le regole della scrittura didascalica. Il mio libro spiega come effettivamente si scrive la didascalia in un testo drammatico e come non bisogna scriverla.

D. Perché, allora, se la didascalia, come hai appena dimostrato, ha una funzione fondamentale nel testo teatrale, e non solo in quello, fino a oggi è stata relegata in un ruolo di secondo piano?
R. È un argomento che ho analizzato approfonditamente nel mio libro. In sintesi, la colpa è di noi drammaturghi che non abbiamo trovato mai il tempo e il desiderio di trasmettere la nostra sapienza sulla scrittura didascalica alle nuove generazioni teatrali. C’è da dire, inoltre, che la didascalia nel nostro passato era molto ridotta poiché i testi teatrali erano scritti principalmente con l’uso del dialogo e del monologo. Al giorno d’oggi, invece, siamo testimoni di una società multimediale, visiva, interattiva, dove conta di più quel che fai e vedi di ciò che dici e senti, e siccome la didascalia indica l’azione e descrive le immagini, ora, in un testo drammatico, la didascalia è diventata veramente necessaria.
Nella cinematografia invece, cioè nella sceneggiatura, la didascalia è sempre stata il testo basilare. Una delle definizioni di sceneggiatura recita che è “la storia scritta con le immagini”. E dunque, se scritta con le immagini, vuol dire che la sceneggiatura si scrive principalmente con l’uso della didascalia.

D. Perché e come ti sei avvicinata al teatro e, soprattutto, vedi nel teatro il tuo futuro? Con quali difficoltà oggettive?R. Credo che la miglior cosa che ci possa capitare nella vita è trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Io sono nata in teatro. I miei ricordi più lontani vanno al palcoscenico dove mi portava mio padre, regista e autore teatrale e televisivo. Ho passato lì tanto tempo a osservare i suoi spettacoli e quelli dei suoi colleghi, a imparare, finché, un giorno, dopo 17 anni, è arrivato anche il mio momento giusto. In quel periodo avvertii un’estrema necessità di mandare messaggi, di testimoniare, di esprimermi attraverso il teatro. C’era la guerra nel mio Paese d’origine e io feci il mio primo spettacolo che parlava della vita dei diciassettenni nella Sarajevo assediata. Ora, a dire il vero, mi auguro che il mio futuro non sia solo in teatro ma anche nel cinema e in televisione. Le difficoltà oggettive sono identiche a quelle che affronta chiunque altro: c’è la crisi economica.

D. Secondo te, oggi, che cosa deve avere un giovane per avvicinarsi e riuscire a vivere nel mondo del teatro?R. Non voglio essere monotematica, ma oltre a talento e voglia di imparare, credo proprio che devono avere dei genitori benestanti.

D. La più bella rappresentazione teatrale cui hai assistito in vita tua?R. Non conservo nella mente un’unica rappresentazione teatrale, ma tante diverse scene che ho visto e che appartenevano ai vari spettacoli. Una specie di The Best Of. A ogni modo, durante la scrittura del libro ho cercato di non farmi influenzare troppo da registi, scrittori e poeti che mi intrigano intellettualmente. Ecco perché ho citato drammaturghi riconosciuti da tutti quanti come dei gran maestri.

D. La più bella alla quale, un giorno, speri di poter assistere?R. Sono superstiziosa. Posso non rispondere?