martedì 23 dicembre 2008

A proposito del male


Intervista di Antonello Sacchetti a Luca Leone, autore di Uomini e belve, storie dai Sud del mondo"

D: Partirei dal titolo. Provo a suggerire un sinonimo di “uomini”: “persone”. Ma le persone possono contenere una belva? Per cosa passa il confine tra vittime e carnefici?
R. Io sono partito da un’idea simile, ma al contrario. Ho cercato per prima cosa un sinonimo di belve e credevo di averlo trovato in “bestie”. Poi ho pensato che “bestia” è molto comunemente utilizzato come sinonimo di “animale” e non volevo correre il rischio di far confondere la “bestia umana” con la fiera, spesso ben più nobile a livello istintuale dell’uomo. Così ho optato per “belva”, che mi dà l’idea della bestia – o dell’animale – in caccia selvaggia e senza quartiere, dell’animale pronto a colpire non per mangiare ma per il gusto di fare del male. Nel caso dell’essere umano, però, la caccia assume ben altri connotati e sviluppi rispetto al resto del regno animale; di qui, il libro. “Persone” sarebbe stato il termine più appropriato per esprimere l’appartenenza positiva al genere umano, un’appartenenza senza distinzione di generi, ma più fattori hanno contribuito alla scelta del titolo finale: “persone” ha un’accezione appunto positiva, mentre qui si parla di persone quando loro – noi – subiscono/subiamo, ma che al contempo hanno – sia come singoli sia come gruppi – già dentro una propensione al cambiamento e a trasformarsi esse stesse in carnefici; “uomini” ha un’accezione almeno parzialmente negativa già in partenza, poiché è ancora oggi pratica comune identificare al maschile l’appartenenza al genere umano, subordinando la componente femminile, che invece nel libro non di rado è la parte che più subisce ma ha altresì grandemente una connotazione positiva e propositiva; inoltre, “uomini” è in termini di comunicazione molto più forte ed efficace di “persone”, e in editoria è fondamentale che un titolo sappia comunicare e colpire: “Uomini e belve” è molto più “forte” e ancestrale di “Persone e belve” o di “Persone e bestie”. Al contempo, per le ragioni prima esposte, “Uomini e bestie” non convinceva e poteva far pensare anche ad altro, magari essere persino un manuale sulla vita in campagna, perché no? Per questo, alla fine, abbiamo scelto questo titolo. Per rispondere alla seconda parte della domanda, il confine è molto labile, e quel che vi passa può essere anche molto sottile, non di rado invisibile: il cinismo, la vendetta, un trauma grave e la sua mancata rimozione, la patologia, la brama di potere, persino – per quanto possa sembrare pazzesco – la noia e la mancanza di un’etica che qualcuno ci abbia tramandato… Se è vero, come purtroppo spesso lo è, che non di rado le principali “belve” sono coloro che da bambini hanno subito gravi violenze, che una volta adulti ripetono a loro volta sui più deboli, sembra quasi che il circolo vizioso del male sia destinato a non fermarsi mai e, anzi, ad alimentari all’infinito.

D: Una domanda “tecnica”: è stato difficile reperire il materiale per questo libro? È davvero un viaggio attorno al mondo, ma non sei potuto andare in tutti i luoghi in cui sono ambientate le storie.
R. Confermo assolutamente che non sono potuto andare in tutti i luoghi di cui si parla, anche se Dio solo sa se avrei voluto. Ho però incontrato, e molte volte, tutte le persone di cui trasmetto esperienze e testimonianze, e ho controllato e verificato ogni fonte come da manuale. Rigorosamente. Non è stato affatto difficile: è stato sufficiente, a un certo punto, fare il sunto delle mille persone che il mio lavoro di giornalista mi ha portato a incontrare negli ultimi anni e cercare – cosa che è venuta assai facilmente – di unire le loro storie con un filo comune. Dal libro sono rimaste fuori tante storie e due interi continenti, a dimostrazione di quante ne avessi e ne abbia. Reperire una storia è la cosa più facile del mondo, se si è aperti alla realtà esterna e ai messaggi che costantemente ti lancia. Molto più difficile è approfondirli, capirli, interpretarli nel modo giusto, contestualizzarli, verificarli. Per farlo bisogna applicare le tecniche del mestiere, come ben sai. Spero di esserci riuscito e di aver fatto tutto questo nel modo migliore, più chiaro e gradevole possibile, nonostante il tema non sia facile.

D: È diverso l’approccio tra le storie raccontate qui in Italia dai protagonisti e quelle che hai raccolto in presa diretta, come in Bosnia?
R. No, l’approccio è sempre lo stesso e parte dal rispetto per la persona con cui stai parlando e dalla reciproca volontà e capacità di aprire un canale di comunicazione umano, di stabilire un “contatto”, di essere sinceri. Cerco sempre di contestualizzare ciò di cui scrivo. Mi piace provare a sondare l’animo della persona, osservare le gestualità, gli occhi, le mani, il modo in cui è vestito, siede, parla, mi guarda o non lo fa. E mi piace inserirlo nel contesto che lo e ci circonda, negli odori, nei colori, nell’aria stessa che in quel momento respiriamo, e che porta con sé frammenti d’universo in ogni nanosecondo. Raccontare una storia è impossibile senza narrare le mille e mille altre storie che si sviluppano tutto intorno. Non possiamo mai decontestualizzare ciò di cui scriviamo e la persona di cui scriviamo: rischieremmo di commettere un falso e di trasmetterlo. Per questo l’approccio non può essere mai diverso. Possono cambiare le attenzioni, le cautele, le barriere linguistiche e culturali, i pericoli, i luoghi e così via, ma l’approccio come sopra descritto no. Altrimenti si falsa ciò di cui si scrive o si rischia di inserire una vicenda in una specie di camera iperbarica, facendole perdere ogni senso e ogni utilità.

D: Nel libro, le storie dell’ex Jugoslavia hanno un ruolo centrale? Anche se è difficile generalizzare, ma a dieci anni dal conflitto del Kosovo, potresti delineare un quadro dell’ex “paese degli slavi del sud”?
R. Ho cercato di dare a tutte le testimonianze e le vicende lo stesso peso ma, certo, dedicare cinque capitoli a un pezzetto di Balcani – Bosnia, Serbia, Kosovo – vuol dire probabilmente sottolineare la centralità di questi Paesi solo apparentemente così incredibilmente periferici.
È difficile in un’intervista fare un quadro della situazione, poiché non basterebbe un intero libro con tante pagine. L’epilogo, non definitivo, del conflitto kosovaro è solo un’altra tappa della “guerra jugoslava”, che qualcuno una volta ha definito “la guerra dei dieci anni” ma che, in realtà, ormai è arrivata a quota 16 e tende a proseguire. Al di là delle suddivisioni territoriali, di cui ciascuno di noi ha certamente ormai sentito parlare, quel che pesa è il messaggio fatto passare, e ormai attecchito, dai cialtroni guerrafondai e golosi che hanno avviato e conseguito lo smembramento jugoslavo con la forza delle armi, a partire dal 1992, e cioè che “insieme non si può vivere”, che un’etnia è culturalmente o addirittura biologicamente superiore all’altra, nell’area di un fazzoletto di terra montuosa. I nazionalismi sono il peggiore dei risultati della guerra cominciata 16 anni fa e sono loro, oggi, i principali responsabili – insieme alla cecità e alla bramosità europea – del disastro umano e culturale in corso in questi Paesi. I nazionalismi, che non di rado si tingono di un fascismo affatto di facciata, sono il principale ostacolo verso la vera pace e verso la nascita o la rinascita di società di nuovo tollerante, in cui sia possibile vivere senza doversi ogni volta guardare le spalle. Questo è il dato di fatto in tutti i Paesi – Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro, Kosovo, Macedonia – sorti dalla carcassa decomposta della Jugoslavia titina; Paesi in cui neppure lontanamente, fino a oggi, si è affermato il principio semplice ma al contempo complicatissimo enunciato dal premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel: “Non può esservi pace senza giustizia”. Dov’è, la giustizia, in questi Paesi, Bosnia in testa? E la pace? Quella vera?

D: La storia di Daniela la romena è la storia dei vicini di casa, della porta accanto, in tutti i sensi..
R. È, in tutti i sensi, la storia di questa Italietta piccola e provinciale, impaurita ed egoista, che la nostra mediocre classe politica, a 180 gradi, ci sta lasciando in eredità. Un Paese di migranti che si trasforma in un ghetto per gli immigrati è un Paese che non ha né memoria né umanità. Oggi stiamo rischiando di diventare questo. Non dobbiamo dimenticare che siamo stati il Paese delle leggi razziali. Il 1938 non è lontano e la xenofobia e il razzismo sono agenti patogeni che raramente lasciano un corpo debilitato, come è attualmente il nostro corpo nazionale. Bisogna tenere alta la guardia e aperta la mente, altrimenti si rischia di risprofondare nell’abisso dei manganelli e degli stivali neri. Mentre invece dovremmo finalmente veleggiare verso un futuro privo di ottuse contrapposizioni ideologiche ormai tramontate e sconfitte, lavorando per il rispetto della vita e della creatività umana, in tutta la sua enormità.

D: Racconti guerre dimenticate: Cecenia, Georgia, Liberia. E crisi mai risolte, come quella cubana. Dimmi la verità: se tu non fossi anche l’editore, credi che avresti trovato facilmente chi pubblicasse un libro “scomodo” come questo?
R. Non so come risponderti. Non credo che scomodo sia il libro, né gli argomenti trattati, sinceramente. Scomodo è il modo in cui gli argomenti vengono trattati. E questo è il caso. Puoi scrivere di crimini mostruosi per negarli o per raccontarne l’esteriorità, per mostrarne una scorza amorfa e addolcita. Puoi al contrario provare a sporcarti le mani e l’anima ed entrare nelle realtà che vuoi raccontare. Io da sempre provo a fare questo. Non so se ci riesco. Ma ci provo con umiltà. Per quanto riguarda l’editore, stai tranquillo che se ti presentassi con 4-5.000 euro “in bocca”, quasi qualsiasi editore ti pubblicherebbe, anche se sparassi a zero contro tutto e tutti. Magari non ti farebbe arrivare in libreria o sui giornali, ma stai pur certo che non pochi si affretterebbero a farti firmare un contratto. Si ha un’idea molto edulcorata del mondo dell’editoria, un’idea ancora quasi romantica. Meglio cominciare ad aprire gli occhi.

D: Mi incuriosisce il tuo doppio ruolo di scrittore ed editore. Spiegaci difficoltà e aspetti interessanti.
R. Cerco di sdoppiarmi e di non condizionare l’uno con l’altro. Alla fine non ci riesco, perché l’editore condiziona l’autore, c’è poco da fare. Per di più, l’editore “punisce” l’autore, perché i miei libri finiscono con l’essere quelli che non riesco a promuovere come dovrei, finendo per lasciarli sempre in fondo alla lista, dopo gli altri. Probabilmente è così che pago questo doppio ruolo, che tra l’altro è molto divertente, perché non è così diffuso il fatto che un autore conosca le problematiche cui va incontro un editore e viceversa. Senz’altro, come dire, l’approccio da editore con il me stesso autore è molto più sereno che non con gli altri autori della casa editrice, che non di rado pretendono ma non comprendono le difficoltà oggettive del mestiere e del mercato, e gli sforzi che facciamo per andare avanti. Però non vivo una realtà da “sdoppiato”. Anzi, in definitiva mai come oggi ho vissuto con i piedi per terra e ricco di una consapevolezza che aumenta anno dopo anno. E infatti, tra la ventina di libri cui stiamo lavorando per il 2009 ci sarà un altro mio nuovo lavoro, di nuovo sulla Bosnia. Sarà un libro completamente diverso da come l’avrei prospettato fino a due anni fa. Gli ultimi viaggi in Bosnia, e in particolare l’ultimo all’inizio di dicembre 2008, mi hanno definitivamente fatto capire che cosa voglio scrivere e come. Ho materiale per dieci libri: lo sforzo sarà riuscire a scriverne uno solo da 160 pagine, buttando tutto il resto. L’appuntamento, se riuscirò in questa impresa improba ma affascinante, è per l’autunno 2009. Però non dimentico i libri “vecchi”, a partire da “Sotto il mattone”, del 2007, scrivendo il quale mi sono divertito come non mai, sperimentando in prima persona i vizietti antipatici dei furbetti di casa nostra.

D: Per finire: non corri il rischio di dipingere un mondo di sole belve? Di dare cioè un messaggio apocalittico?
R. Niente affatto, anzi mi sforzo di fare il contrario, come ho cercato di spiegare nelle ultime presentazioni del libro: alla fine questo lavoro mi ha convinto in modo inconfutabile che l’essere umano dentro di sé ha una forza enorme, inimmaginabile e positiva, e che proprio questa forza non solo ci permetterà di sopravvivere ma, prima o poi, ci permetterà anche di fare finalmente il passo in avanti di cui abbiamo bisogno, verso un mondo più libero e verso dei rapporti umani diversi. Oggi il pianeta potrebbe farci vivere tutti meglio. Invece stiamo allargando la forbice, sempre di più, e ci stiamo macchiando di un’aberrazione: la povertà e la fame nel mondo. Ne siamo tutti responsabili, come del grosso delle guerre che si combattono in decine di Paesi del mondo. Io sono convinto, nonostante tutto, che sapremo venirne a capo. Bisognerebbe cominciare solo a mandare a casa i politici e gli speculatori che abbiamo e che davvero non meritiamo, perché di questa gente non se ne può veramente più. In pochi decenni ci hanno distrutto secoli di sviluppo umano e culturale, finendo col dare un prezzo e un’etichetta col codice barrato a tutto. Ci vorrà del tempo, ma perché non sperare di farcela?