mercoledì 31 dicembre 2008

Buon anno nuovo?


31/12/2008. Si chiude un anno difficile. Ma quante (troppe) speranze e paure per l’incipiente 2009!

I bilanci di fine anno sono qualcosa che spetta a presidenti, commercialisti, opinionisti e cartomanti. Per carità: non aggiungiamo altre voci alle tante – troppe – che già dicono la loro.

Quello che a noi interessa qui è ringraziare tutti coloro che nel 2008 ci hanno seguito, letto e sostenuto, e – in anticipo – tutti coloro che lo faranno nel 2009, l’anno terribile che tutti aspettiamo e che, alla fine, sta arrivando. E, magari, provare a fare qualche riflessione.

Sarà, alla fine, quella che pare ci aspetti la grande recessione che tutti paventano? Ottant’anni dopo il 1929, lo spettro della miseria torna ad affacciarsi nella società dell’opulenza che hanno creato per noi e che si nutre della nostra solitudine e del nostro egoismo? Può darsi. Intanto, però – come accaduto su scala locale in Argentina o nella Russia degli oligarchi e degli agenti segreti – pochi furbi stanno approfittando della crisi e della paura per arricchirsi alla faccia del resto dell’umanità. Ce ne accorgeremo solo dopo, alla fine del tunnel, quando raccoglieremo cocci e sorprese. Ma stiamo tranquilli che è e sempre sarà così. La crisi di molti, normalmente rappresenta la fortuna di pochi. E ciò pone i prodromi di nuove, cicliche crisi. Almeno finché non sarà cambiato modello e sistema di sviluppo. Ma c’è chi sostiene ancora che il capitalismo sia il sistema migliore, nonostante nella sua patria in molti non la pensino più così…

L’anno bisestile sta per finire e ci lascia una scia di veleno e ansia: l’Iraq in cui si continua a morire, lo spettro del fallimento politico e diplomatico e della disfatta militare in Afghanistan, la crisi sempiterna con Teheran e le incipienti elezioni iraniane che segneranno la fine del breve “impero” dell’impresentabile Ahmadinejad, le rinnovate tensioni indo-pachistane, il surriscaldamento globale, la crisi del sistema bancario e quella del sistema assicurativo in arrivo, via via fino all’attualità della nuova fiammata di stupidità e sangue a Gaza si spostano, tutte insieme, come un blocco granitico dal peso inimmaginabile, da un anno all’altro ma, soprattutto, da un presidente degli Stati Uniti all’altro. Dalla certezza, dunque, della fine del governo di un inetto che per otto anni ha negativamente condizionato il pianeta alla rinata speranza evocata prima e ora incarnata dal primo capo dello Stato nordamericano nero, che restituisce al globo terracqueo in stagflazione economica ed etica una rinnovata speranza di uguaglianza, di libertà, d’etica. D’intelligenza.

Barak Obama non è detto sia l’uomo del futuro e non è certo che, alla fin fine, soddisfi le aspettative di tutti noi. Potrebbe essere un nuovo bluff a stelle e strisce, un nuovo John Fitzgerald Kennedy che, oggi rievocato e ricordato con enfasi – in particolare nella provincia italiota così superficiale – nessuno riesce o vuole ricordare come l’uomo della baia dei porci, altro che storie!

Su Obama il peso e le pressioni sono enormi. Da un lato ci siamo noi, la maggioranza dei silenziosi e degli insoddisfatti, coloro che vorrebbero che fosse finalmente posto un freno agli sporcaccioni che devastano il mondo per non seguire le più elementari misure anti-inquinamento, agli assassini che producono armi e le vendono (e a coloro che, acquistandole e usandole, permettono al Prodotto interno lordo di molti Paesi di crescere, alla faccia dei civili che massacreranno), agli intossicatori che spacciano sulle nostre tavole cibi sempre più devastanti e ai nostri figli merda da sniffare, fumare o infilarsi in vena, agli affamatori che preferiscono buttare prodotti agricoli sotto terra per farne crescere il prezzo sui mercati nazionali e internazionali piuttosto che inviarli a chi muore di fame, inclusi coloro che muoiono di freddo nei Paesi ricchi, buttati per strada al freddo sotto qualche cartone racimolato intorno a un’edicola. Dall’altro lato ci sono gli interessi di questa microscopica minoranza di ottusi ricchi, abili a sguazzare nell’acquario infame della loro opulenza e privi delle anche minime qualità umane di rispetto e pietà. Alcuni di loro, in tarda età, paiono svegliarsi e volersi rifare una verginità. Bentornati tra noi. Ma perché, in definitiva, dovremmo ricordare Bill Gates come l’uomo che, con la sua fondazione, aiuta i poveri per lavarsi la coscienza, quando la sua azienda ha “gabbato” centinaia di milioni di persone con i suoi sistemi operativi difettosi, permettendo al grande padrone dell’informatica mondiale di riutilizzare una inima parte di quegli introiti per lavarsi coscienza e immagine? Basta Mr. Gates, basta con le sue licenze e il suo sorriso da nonno buono, e basta con le altre poche migliaia di arroganti padroni del mondo che fanno e disfano sulla nostra pelle, creando brevetti, costruendo muri e abbattendo ponti con la complicità negligente e ghiotta di politici mediocri e mendaci che non meritiamo. Come quelli italiani, ad esempio.

Che anno sarà, il 2009, in un Paese come l’Italia, ormai periferia della periferia, messa con le spalle al muro da sogni di grandezza mai raggiunta e da una classe politica di mediocrità storicamente forse mai raggiunta prima, neppure ai tempi della negletta casa regnante che un tempo il destino, con sarcasmo e cinismo, c’impose? Nel Paese delle polemiche stantie e offensive del minimo buon gusto, non dobbiamo, purtroppo, aspettarci altro che un calo ulteriore del rispetto per l’intelligenza di chi, qui, pure ci vive e intende continuare a farlo. Un’opposizione inesistente e incapace non potrà bilanciare un governo altrettanto incapace e lontano dalle aspettative generali nei suoi interessi e nei suoi piani d’azione. Chi guadagna 20.000 euro al mese e vive in giacca e cravatta, magari montando su polemiche pruriginose perché nel prezzo del pranzo sontuoso a costo proletario che il contribuente gli paga non è più incluso il gelato, d’altronde, neppure lontanamente può immaginare che cosa voglia dire campare con 400 euro al mese lavorando in un call center o facendo le pulizie in nero a ore, oppure cucendo orli di pantaloni accecandosi davanti a una macchina da cucire. E stiamo parlando dei fortunati, di quelli cioè che, in definitiva, una miseria di lavoro pure l’hanno o se lo sono creato. Senza ricorrere a drastiche misure, senza abbassarsi a delinquere per sopravvivere. Perché questo è ancora, per fortuna, un Paese di brava gente. Brava gente sola e intristita, purtroppo. La classe politica italiana ignora completamente le condizioni in cui vive il Paese reale, perché non lo frequenta, non lo conosce e, soprattutto, non lo capisce. Perché non è sufficiente sapere. Il passo successivo è capire. Solo la comprensione – e il bagno di umiltà che vi è alla base – permette di trovare delle soluzioni. Ma come può chi colleziona ville o si rilassa veleggiando verso la Sardegna o fa il ministro dai Caraibi o il ministro ombra dal Kenya conoscere i reali bisogni e le vere paure di un Paese e dell’eterogeneo popolo che fortunatamente e per sua sfortuna vi vive?

La paura è oggi il vero discrimine della politica mondiale e quindi, di riflesso – esportatori di ottimi cervelli e importatori di pessime mode come siamo – della “politichetta” nazionale. Chi ha avuto la fortuna di viaggiare per scrivere conosce bene certi meccanismi, che i mezzibusti televisivi affini al potere goffamente tendono a mascherare dietro porte fittizie e sigle ricche di effetti speciali: la paura del diverso, l’instillazione de terrore per “l’altro”, sono l’anticamera de disastro sociale e civle, e non di rado della guerra e della devastazione. Chi continua a pensare che i Balcani siano un altro mondo rispetto all’Italia non conosce quelle terre e ne frequenta poco o male altre. Basta soffiare sulla paura per il diverso, basta mettere all’indice la diversità come sinonimo di pericolo, invece che di ricchezza. Questo è un crimine contro l’intelligenza umana e contro l’umanità stessa. Quanto sono brutti e puzzolenti, secondo certa politica e certi media, gli africani che arrivano in Italia attraverso il Mare di Mezzo? Eppure, da marzo a ottobre, quando questi stessi africani servono per la raccolta – in nero e in odore di sfruttamento persino semi-schiavistico – di pomodori, fragole e patate, improvvisamente l’allarme muta, sfuma, diventa qualcosa di diverso. O persino scompare. Gli interessi del caporale e del padrone terriero per cui lavora vengono prima della “sicurezza nazionale”, del bisogno di rimandare indietro “la marea che ci invade”, e che sapientemente lasciamo sfruttare. Gli “zulù” sono tali e fanno paura quando non ci occorrono. Solo allora. Quando guadagnano 30 euro al giorno, lavorano 12 ore sette giorni a settimana, non sanno neppure di avere (forse ancora per poco) diritto all’assistenza medica anche se sono clandestini e vengono sfruttati coattamente, allora puzzano meno. L’importante è che, quando non vengono sfruttati nei campi, scompaiano e vadano a rintanarsi come topi nei ghetti marci e freddi che la polizia ben conosce e nei quali devono rinchiudersi fino al mattino dopo, quando scatta la nuova chiamata del caporale. Altre dodici ore di patate, fragole, pomodori da raccogliere, per farli arrivare belli mondati e a prezzi stratosferici sulle tavole degli italiani rincoglioniti dalla plastica colorata e dagli effetti speciali. Nessun sappia, tutti dormano.

In definitiva, chissà davvero che 2009 sarà.

Che 2009 sarà in Kivu, nell’est della Repubblica democratica del Congo, dove negli ultimi dieci anni sono morti in quattro milioni, ma quasi nessuno se ne ricorda, perché coltan, legname, oro, diamanti e altri “ben di dio” vengono prima e soddisfano di più le esigenze del cittadino-consumatore-cliente globale?

Che 2009 sarà a Gaza, dove un popolo intero è ostaggio di un doppio incubo dal quale non potrà forse mai uscire?

Che 2009 sarà in Iraq, dove un giornalista rischia 15 anni di carcere e pare sia già stato picchiato e torturato per avere tirato “solo” un paio di scarpe (forse le uniche calzature che aveva) contro un uomo inqualificabile come Gorge W. Bush ma nessun tribunale, mai – né iracheno né internazionale – chiamerà lo stesso signor Bush e la sua claque di squali a rispondere dei crimini perpetrati ai danni di un popolo, in nome e in virtù di una provetta fasulla mostrata al mondo intero?

E che 2009 sarà in Cecenia, dove la setta degli ex agenti del Kgb al potere al Cremino non allenta la morsa dei paramilitari e della violenza contro una popolazione vittima di un genocidio silenzioso?

E in Georgia, dove un presidente-padrone amico dell’Occidente si permette di prendere a schiaffi in publico il suo primo ministro dopo avere provocato, non più tardi dello scorso agosto, almeno 2.000 morti in un’avventurosa campagna di riconquista territoriale a lungo attesa dal “democratico” primo ministro e onnipotente padrone Vladimir Putin per assestare la mazzata filale a Tbilisi e lanciare sinistri avvertimenti all’Ucraina? E in quest’ultimo Paese, dove la questione del gas russo porterà a conseguenze interne ben più gravi di quanto in molti si aspettino?

Sono domande troppo grandi per tutti noi, alle quali non si può dare una risposta. E allora, consapevoli che il gigante nordamericano è in declino e che oggi i nuovi astri si chiamano Cina (dove i diritti umani vengono rispettati sulla base del “modello tibetano”…) e India, aspettiamo metà gennaio e speriamo che qualcosa simile a una stella cometa si sistemi sul tetto della Casa Bianca, a Washington. Obama non può essere l’uomo del destino né il salvatore venuto da Chicago. Speriamo solo sia un uomo e un governante avulso dalle porcherie del potere alle quali la classe politica statunitense ci ha fatto assistere negli ultimi anni, e che dagli Stati Uniti parta finalmente una ventata di ottimismo fresco e frizzante. Se poi l’aria nuova entrasse anche nelle narici e nelle teste delle gerarchie religiose dei grandi monoteismi mondiali, il miracolo sarebbe davvero enorme. Ma è vero che siamo a Natale, però probabilmente neppure il Dio più onnipotente potrebbe riuscire in quest’ultimo prodigio. Non si può chiedere troppo a Babbo Natale, come sanno molti bambini…. Sarebbe anche pericoloso dal punto di vista occupazionale: quanti imbecilli che ammazzano in nome della fede rimarrebbero, a ogni latitudine, senza lavoro?... No, in tempi di crisi pare che questo non sia proprio possibile…

martedì 23 dicembre 2008

A proposito del male


Intervista di Antonello Sacchetti a Luca Leone, autore di Uomini e belve, storie dai Sud del mondo"

D: Partirei dal titolo. Provo a suggerire un sinonimo di “uomini”: “persone”. Ma le persone possono contenere una belva? Per cosa passa il confine tra vittime e carnefici?
R. Io sono partito da un’idea simile, ma al contrario. Ho cercato per prima cosa un sinonimo di belve e credevo di averlo trovato in “bestie”. Poi ho pensato che “bestia” è molto comunemente utilizzato come sinonimo di “animale” e non volevo correre il rischio di far confondere la “bestia umana” con la fiera, spesso ben più nobile a livello istintuale dell’uomo. Così ho optato per “belva”, che mi dà l’idea della bestia – o dell’animale – in caccia selvaggia e senza quartiere, dell’animale pronto a colpire non per mangiare ma per il gusto di fare del male. Nel caso dell’essere umano, però, la caccia assume ben altri connotati e sviluppi rispetto al resto del regno animale; di qui, il libro. “Persone” sarebbe stato il termine più appropriato per esprimere l’appartenenza positiva al genere umano, un’appartenenza senza distinzione di generi, ma più fattori hanno contribuito alla scelta del titolo finale: “persone” ha un’accezione appunto positiva, mentre qui si parla di persone quando loro – noi – subiscono/subiamo, ma che al contempo hanno – sia come singoli sia come gruppi – già dentro una propensione al cambiamento e a trasformarsi esse stesse in carnefici; “uomini” ha un’accezione almeno parzialmente negativa già in partenza, poiché è ancora oggi pratica comune identificare al maschile l’appartenenza al genere umano, subordinando la componente femminile, che invece nel libro non di rado è la parte che più subisce ma ha altresì grandemente una connotazione positiva e propositiva; inoltre, “uomini” è in termini di comunicazione molto più forte ed efficace di “persone”, e in editoria è fondamentale che un titolo sappia comunicare e colpire: “Uomini e belve” è molto più “forte” e ancestrale di “Persone e belve” o di “Persone e bestie”. Al contempo, per le ragioni prima esposte, “Uomini e bestie” non convinceva e poteva far pensare anche ad altro, magari essere persino un manuale sulla vita in campagna, perché no? Per questo, alla fine, abbiamo scelto questo titolo. Per rispondere alla seconda parte della domanda, il confine è molto labile, e quel che vi passa può essere anche molto sottile, non di rado invisibile: il cinismo, la vendetta, un trauma grave e la sua mancata rimozione, la patologia, la brama di potere, persino – per quanto possa sembrare pazzesco – la noia e la mancanza di un’etica che qualcuno ci abbia tramandato… Se è vero, come purtroppo spesso lo è, che non di rado le principali “belve” sono coloro che da bambini hanno subito gravi violenze, che una volta adulti ripetono a loro volta sui più deboli, sembra quasi che il circolo vizioso del male sia destinato a non fermarsi mai e, anzi, ad alimentari all’infinito.

D: Una domanda “tecnica”: è stato difficile reperire il materiale per questo libro? È davvero un viaggio attorno al mondo, ma non sei potuto andare in tutti i luoghi in cui sono ambientate le storie.
R. Confermo assolutamente che non sono potuto andare in tutti i luoghi di cui si parla, anche se Dio solo sa se avrei voluto. Ho però incontrato, e molte volte, tutte le persone di cui trasmetto esperienze e testimonianze, e ho controllato e verificato ogni fonte come da manuale. Rigorosamente. Non è stato affatto difficile: è stato sufficiente, a un certo punto, fare il sunto delle mille persone che il mio lavoro di giornalista mi ha portato a incontrare negli ultimi anni e cercare – cosa che è venuta assai facilmente – di unire le loro storie con un filo comune. Dal libro sono rimaste fuori tante storie e due interi continenti, a dimostrazione di quante ne avessi e ne abbia. Reperire una storia è la cosa più facile del mondo, se si è aperti alla realtà esterna e ai messaggi che costantemente ti lancia. Molto più difficile è approfondirli, capirli, interpretarli nel modo giusto, contestualizzarli, verificarli. Per farlo bisogna applicare le tecniche del mestiere, come ben sai. Spero di esserci riuscito e di aver fatto tutto questo nel modo migliore, più chiaro e gradevole possibile, nonostante il tema non sia facile.

D: È diverso l’approccio tra le storie raccontate qui in Italia dai protagonisti e quelle che hai raccolto in presa diretta, come in Bosnia?
R. No, l’approccio è sempre lo stesso e parte dal rispetto per la persona con cui stai parlando e dalla reciproca volontà e capacità di aprire un canale di comunicazione umano, di stabilire un “contatto”, di essere sinceri. Cerco sempre di contestualizzare ciò di cui scrivo. Mi piace provare a sondare l’animo della persona, osservare le gestualità, gli occhi, le mani, il modo in cui è vestito, siede, parla, mi guarda o non lo fa. E mi piace inserirlo nel contesto che lo e ci circonda, negli odori, nei colori, nell’aria stessa che in quel momento respiriamo, e che porta con sé frammenti d’universo in ogni nanosecondo. Raccontare una storia è impossibile senza narrare le mille e mille altre storie che si sviluppano tutto intorno. Non possiamo mai decontestualizzare ciò di cui scriviamo e la persona di cui scriviamo: rischieremmo di commettere un falso e di trasmetterlo. Per questo l’approccio non può essere mai diverso. Possono cambiare le attenzioni, le cautele, le barriere linguistiche e culturali, i pericoli, i luoghi e così via, ma l’approccio come sopra descritto no. Altrimenti si falsa ciò di cui si scrive o si rischia di inserire una vicenda in una specie di camera iperbarica, facendole perdere ogni senso e ogni utilità.

D: Nel libro, le storie dell’ex Jugoslavia hanno un ruolo centrale? Anche se è difficile generalizzare, ma a dieci anni dal conflitto del Kosovo, potresti delineare un quadro dell’ex “paese degli slavi del sud”?
R. Ho cercato di dare a tutte le testimonianze e le vicende lo stesso peso ma, certo, dedicare cinque capitoli a un pezzetto di Balcani – Bosnia, Serbia, Kosovo – vuol dire probabilmente sottolineare la centralità di questi Paesi solo apparentemente così incredibilmente periferici.
È difficile in un’intervista fare un quadro della situazione, poiché non basterebbe un intero libro con tante pagine. L’epilogo, non definitivo, del conflitto kosovaro è solo un’altra tappa della “guerra jugoslava”, che qualcuno una volta ha definito “la guerra dei dieci anni” ma che, in realtà, ormai è arrivata a quota 16 e tende a proseguire. Al di là delle suddivisioni territoriali, di cui ciascuno di noi ha certamente ormai sentito parlare, quel che pesa è il messaggio fatto passare, e ormai attecchito, dai cialtroni guerrafondai e golosi che hanno avviato e conseguito lo smembramento jugoslavo con la forza delle armi, a partire dal 1992, e cioè che “insieme non si può vivere”, che un’etnia è culturalmente o addirittura biologicamente superiore all’altra, nell’area di un fazzoletto di terra montuosa. I nazionalismi sono il peggiore dei risultati della guerra cominciata 16 anni fa e sono loro, oggi, i principali responsabili – insieme alla cecità e alla bramosità europea – del disastro umano e culturale in corso in questi Paesi. I nazionalismi, che non di rado si tingono di un fascismo affatto di facciata, sono il principale ostacolo verso la vera pace e verso la nascita o la rinascita di società di nuovo tollerante, in cui sia possibile vivere senza doversi ogni volta guardare le spalle. Questo è il dato di fatto in tutti i Paesi – Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro, Kosovo, Macedonia – sorti dalla carcassa decomposta della Jugoslavia titina; Paesi in cui neppure lontanamente, fino a oggi, si è affermato il principio semplice ma al contempo complicatissimo enunciato dal premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel: “Non può esservi pace senza giustizia”. Dov’è, la giustizia, in questi Paesi, Bosnia in testa? E la pace? Quella vera?

D: La storia di Daniela la romena è la storia dei vicini di casa, della porta accanto, in tutti i sensi..
R. È, in tutti i sensi, la storia di questa Italietta piccola e provinciale, impaurita ed egoista, che la nostra mediocre classe politica, a 180 gradi, ci sta lasciando in eredità. Un Paese di migranti che si trasforma in un ghetto per gli immigrati è un Paese che non ha né memoria né umanità. Oggi stiamo rischiando di diventare questo. Non dobbiamo dimenticare che siamo stati il Paese delle leggi razziali. Il 1938 non è lontano e la xenofobia e il razzismo sono agenti patogeni che raramente lasciano un corpo debilitato, come è attualmente il nostro corpo nazionale. Bisogna tenere alta la guardia e aperta la mente, altrimenti si rischia di risprofondare nell’abisso dei manganelli e degli stivali neri. Mentre invece dovremmo finalmente veleggiare verso un futuro privo di ottuse contrapposizioni ideologiche ormai tramontate e sconfitte, lavorando per il rispetto della vita e della creatività umana, in tutta la sua enormità.

D: Racconti guerre dimenticate: Cecenia, Georgia, Liberia. E crisi mai risolte, come quella cubana. Dimmi la verità: se tu non fossi anche l’editore, credi che avresti trovato facilmente chi pubblicasse un libro “scomodo” come questo?
R. Non so come risponderti. Non credo che scomodo sia il libro, né gli argomenti trattati, sinceramente. Scomodo è il modo in cui gli argomenti vengono trattati. E questo è il caso. Puoi scrivere di crimini mostruosi per negarli o per raccontarne l’esteriorità, per mostrarne una scorza amorfa e addolcita. Puoi al contrario provare a sporcarti le mani e l’anima ed entrare nelle realtà che vuoi raccontare. Io da sempre provo a fare questo. Non so se ci riesco. Ma ci provo con umiltà. Per quanto riguarda l’editore, stai tranquillo che se ti presentassi con 4-5.000 euro “in bocca”, quasi qualsiasi editore ti pubblicherebbe, anche se sparassi a zero contro tutto e tutti. Magari non ti farebbe arrivare in libreria o sui giornali, ma stai pur certo che non pochi si affretterebbero a farti firmare un contratto. Si ha un’idea molto edulcorata del mondo dell’editoria, un’idea ancora quasi romantica. Meglio cominciare ad aprire gli occhi.

D: Mi incuriosisce il tuo doppio ruolo di scrittore ed editore. Spiegaci difficoltà e aspetti interessanti.
R. Cerco di sdoppiarmi e di non condizionare l’uno con l’altro. Alla fine non ci riesco, perché l’editore condiziona l’autore, c’è poco da fare. Per di più, l’editore “punisce” l’autore, perché i miei libri finiscono con l’essere quelli che non riesco a promuovere come dovrei, finendo per lasciarli sempre in fondo alla lista, dopo gli altri. Probabilmente è così che pago questo doppio ruolo, che tra l’altro è molto divertente, perché non è così diffuso il fatto che un autore conosca le problematiche cui va incontro un editore e viceversa. Senz’altro, come dire, l’approccio da editore con il me stesso autore è molto più sereno che non con gli altri autori della casa editrice, che non di rado pretendono ma non comprendono le difficoltà oggettive del mestiere e del mercato, e gli sforzi che facciamo per andare avanti. Però non vivo una realtà da “sdoppiato”. Anzi, in definitiva mai come oggi ho vissuto con i piedi per terra e ricco di una consapevolezza che aumenta anno dopo anno. E infatti, tra la ventina di libri cui stiamo lavorando per il 2009 ci sarà un altro mio nuovo lavoro, di nuovo sulla Bosnia. Sarà un libro completamente diverso da come l’avrei prospettato fino a due anni fa. Gli ultimi viaggi in Bosnia, e in particolare l’ultimo all’inizio di dicembre 2008, mi hanno definitivamente fatto capire che cosa voglio scrivere e come. Ho materiale per dieci libri: lo sforzo sarà riuscire a scriverne uno solo da 160 pagine, buttando tutto il resto. L’appuntamento, se riuscirò in questa impresa improba ma affascinante, è per l’autunno 2009. Però non dimentico i libri “vecchi”, a partire da “Sotto il mattone”, del 2007, scrivendo il quale mi sono divertito come non mai, sperimentando in prima persona i vizietti antipatici dei furbetti di casa nostra.

D: Per finire: non corri il rischio di dipingere un mondo di sole belve? Di dare cioè un messaggio apocalittico?
R. Niente affatto, anzi mi sforzo di fare il contrario, come ho cercato di spiegare nelle ultime presentazioni del libro: alla fine questo lavoro mi ha convinto in modo inconfutabile che l’essere umano dentro di sé ha una forza enorme, inimmaginabile e positiva, e che proprio questa forza non solo ci permetterà di sopravvivere ma, prima o poi, ci permetterà anche di fare finalmente il passo in avanti di cui abbiamo bisogno, verso un mondo più libero e verso dei rapporti umani diversi. Oggi il pianeta potrebbe farci vivere tutti meglio. Invece stiamo allargando la forbice, sempre di più, e ci stiamo macchiando di un’aberrazione: la povertà e la fame nel mondo. Ne siamo tutti responsabili, come del grosso delle guerre che si combattono in decine di Paesi del mondo. Io sono convinto, nonostante tutto, che sapremo venirne a capo. Bisognerebbe cominciare solo a mandare a casa i politici e gli speculatori che abbiamo e che davvero non meritiamo, perché di questa gente non se ne può veramente più. In pochi decenni ci hanno distrutto secoli di sviluppo umano e culturale, finendo col dare un prezzo e un’etichetta col codice barrato a tutto. Ci vorrà del tempo, ma perché non sperare di farcela?

martedì 16 dicembre 2008

Alla ricerca dell'Undicesimo Comandamento


A Once, Buenos Aires, con Francesca Bellino, autrice de "Il prefisso di Dio"

Da Salerno a Buenos Aires il passo non è breve ma Francesca Bellino – autrice per i tipi di Infinito edizioni del saggio “Il prefisso di Dio. Storie e labirinti di Once, Buenos Aires”, novembre 2008, pagg. 192, € 14,00 – ha trovato il modo più sorprendente per colmare un Oceano di distanza e portare per mano il lettore nel quartiere “fantasma” più famoso del mondo, quell’Once che ha dato i natali a tanti artisti e che è stato culla della cultura ebraica in Argentina.

Dall’intervista con la Bellino scaturisce una Buenos Aires inedita, sconosciuta ai più, priva di confini e ricca di contaminazioni culturali, una città colta e interiormente forte che gira attorno a un quartiere che non esiste, ma che tutti conoscono, che non sta sulle mappe ma che tutti cercano e in cui, in un modo o nell’altro, tutti prima o poi fanno ritorno.

El Once e il numero undici sono al centro della chiacchierata sul libro che, tra l’altro, è ulteriormente arricchito dalla prefazione del grande compositore portegno Luis Bacalov, secondo cui “un viaggio in compagnia de ‘Il Prefisso di Dio’ apre le porte meglio di qualunque guida turistica non solo a el Once e a Buenos Aires, perché Francesca Bellino racconta questi luoghi e storie con la partecipazione vitale e affettuosa di una scrittrice attenta e desiderosa di spaziare oltre e oltre e oltre ancora”.

D. Francesca, il tuo libro colpisce e impressiona favorevolmente fin dal titolo. Che cosa è – e quale è – però questo “Prefisso di Dio” di cui parli e come nasce questo titolo così particolare?
R. Il titolo nasce da una barzelletta che ironizza sulla convinzione degli argentini di godere della presenza costante di Dio in città. Dios attiende en Buenos Aires, dicono, per comunicare che Dio riceve nel suo ufficio a Buenos Aires e da lì fa i suoi miracoli. Quando si ha l’intenzione di telefonargli, infatti, si dice che non c’è bisogno di fare il prefisso perché per chiedere aiuto a Dio basta “una chiamata locale”! “Il prefisso di Dio” richiama, inoltre, il numero ricorrente in tutto il libro, l’11, o Once in spagnolo – nome del quartiere della città dove si svolge la storia – perchè il prefisso di Buenos Aires è 011. Il numero 11 è stato il punto di partenza del mio viaggio di conoscenza del quartiere, della città e della società argentina ed è poi diventato il filo conduttore di tutti gli avvenimenti narrati. La sorpresa per me è stata scoprire che la storia era “già scritta”: dovevo solo ricomporla mettendo insieme gli 11.

D. Nel tuo libro tutto ruota attorno al “quartiere fantasma” Once. Come definiresti Once e che rapporto c’è tra il quartiere, la gente che in esso vive e la città di Buenos Aires?
R. Once per me simboleggia l’Aleph di Borges «uno di quei punti dello spazio che contiene tutti i punti. Il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli». Anche se per molti porteños – così sono chiamati gli abitanti di Buenos Aires – Once è solo un luogo di passaggio per raggiungere altri posti perché lì si trova una grande stazione, per me questo quartiere invece ha rappresentato il centro del labirinto che può portare alla conoscenza di se stesso e degli altri perché vi confluisce tutto e la sua atmosfera stimola al confronto con i propri limiti e con le differenze delle culture di altre comunità. A Once coabitano pacificamente ebrei, boliviani, peruviani, coreani, oltre a immigrati di origine italiana e spagnola. Once è considerato un quartiere fantasma perché non compare sulle mappe della città. Una delle sfide che la protagonista compie in questo viaggio di ricerca, infatti, consiste proprio nel trovare i confini di un quartiere che non esiste – conosciuto ufficialmente con il nome di Balvanera – eppure scenario di importanti pagine di storia della città di Buenos Aires, dalla nascita del tango ai grandi flussi immigratori di fine ‘800, dalla concentrazione della prostituzione ai primi attentati terroristici in America Latina negli Anni ’90, all’ambasciata d’Israele e all’Amia, fino alla tragica morte di 194 ragazzi nella discoteca Cromañon nel 2004, fotografia dell’Argentina di oggi: corruzione, insicurezza e normalizzazione del pericolo.

D. Proviamo a fare una panoramica dei grandi nomi nati in questo quartiere. Once ha dato i natali ad alcuni tra i più grandi rappresentanti della cultura e delle arti non solo dell’intera Argentina ma di tutto il mondo. C’è una spiegazione, secondo te, o è solo un caso?
R. È vero, molte figure rappresentative dell’Argentina nel mondo sono nate o vissute a Once, come gli autori di tango Julio De Caro, José Razzano, Alberto Castillo, il maestro d’orchestra Daniel Barenboim, fondatore della West-Eastern Divan Orchestra che riunisce giovani musicisti d’Israele e dei Paesi arabi, lo scienziato, medico e fisiologo Bernardo Alberto Houssay, vincitore del Nobel per la medicina nel 1947. Vi è nato e ancora ci vive e ci lavora anche uno degli scrittori ebrei più apprezzati della nuova generazione, Marcelo Birmajer, e si racconta che lo stesso Carlos Gardel, il grande mito del tango, abbia trascorso la sua infanzia tra le strade di Once, come è successo anche al maestro Luis Bacalov, autore della prefazione de “Il prefisso di Dio”, nato in un quartiere vicino, Villa Crespo. Una spiegazione? Ho sempre pensato che niente succeda per caso, e che «ogni incontro casuale è appuntamento», come ci ricorda Borges. Probabilmente la convivenza di culture diverse e la possibilità di dialogare con il “diverso” aiutano a guardare il mondo in maniera più ampia e a sviluppare potenzialità, aspettative e creatività con maggior coraggio, libertà e determinazione.

D. La tua ricerca dell’Undicesimo Comandamento – uno degli assi portanti del tuo libro – alla fine ha dato frutti?
R. Tanti. Come dice uno dei personaggi del libro, «ogni passo è la meta». È più importante il cammino che si compie per raggiungere il traguardo o per trovare l’oggetto desiderato che l’arrivo o il ritrovamento in sé. Il libro, che fonde il linguaggio del saggio, del reportage e del romanzo, racconta i passi che compie la protagonista per imparare a confrontarsi, a dialogare e a rispettare l’Altro. Il mio augurio è che anche i lettori facciano lo stesso viaggio percorrendo le pagine del libro, ponendosi delle domande sulla propria vita. L’invito che mi piacerebbe arrivasse a chi leggerà “Il prefisso di Dio”, infatti, è quello di cercare, ognuno sulla sua strada, un Undicesimo Comandamento valido per tutte le religioni, una legge inedita da usare nelle nuove società plurali che, come in Italia, in tante nazioni stentano a funzionare.

D. Perché un turista dovrebbe visitare Once? Da quali suggestioni dovrebbe (o potrebbe) farsi guidare?
R. Once non è affatto un luogo turistico, non ci sono attrattive, è un luogo assolutamente anonimo, ma sicuramente può essere interessante passeggiare su una delle sue strade tematiche colme di prodotti variopinti e a buon prezzo, o attraversare plaza Miserere, dove tante persone si dimenano in attività di ogni tipo e osservare come a Buenos Aires sia assolutamente normale costruire una sinagoga a fianco di una chiesa cattolica gremita di fedeli in cerca di un miracolo e vedere persone di religioni diverse correre a compiere il proprio rito di preghiera senza inibizioni, vergogne o paure. Non c’è bisogno di andare a Once, però, per imparare ad ascoltare l’Altro e apprezzarne le differenze. Lo si può fare anche a Piazza Vittorio a Roma.

D. Come definiresti gli argentini?
R. Persone molto colte, forti e vitali con una grande capacità di reagire e rialzarsi dopo ogni tipo di caduta.

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