giovedì 20 novembre 2008

"Morte agli Italiani!", parla Enzo Barnabà


"In un secolo i meccanismi della xenofobia non sono molto cambiati, purtroppo"

“Il massacro di Aigues-Mortes, che il 17 agosto 1893 costò la vita a nove operai italiani linciati da una folla inferocita, rappresenta indubbiamente un episodio non secondario dei rapporti tra l'Italia e la Francia, sia al livello delle relazioni politico-diplomatiche tra i due Stati che a quello della storia delle classi subalterne dei due Paesi. Malgrado ciò, bisogna registrare il processo di rimozione verificatosi in Francia dove dei fatti – in pratica cancellati per un secolo dalla memoria collettiva nazionale – si è cominciato a parlare soltanto negli ultimi anni. In Italia, invece – grazie all'incidenza che il massacro ebbe sulla politica interna e in particolare sullo scontro tra le due linee politiche, rappresentate da Crispi e da Giolitti, che sul finire del secolo si contendevano la guida del Paese – l'episodio, peraltro più citato che conosciuto, continua a far parte del patrimonio storico post-risorgimentale”.

Questo l’incipit di Morte agli Italiani!, il nuovo sforzo saggistico dello storico e romanziere Enzo Barnabà, un uomo che ha scritto pagine importanti di letteratura sia in Italia sia in Francia e che con questo nuovo lavoro sull’eccidio di Aigues-Mortes (pubblicato nell’ottobre 2008 da Infinito edizioni) ha stracciato un velo di omertà e di vernice nera su uno degli eventi più tragici della fine del secolo XIX nei rapporti italo-francesi, che rischiò di far sprofondare in un conflitto i due Paesi.

Il libro di Barnabà, corredato da una certosina e rara ricostruzione iconografica degli eventi, può essere riassunto come un grande saggio storico e un notevole servizio alla verità, figlio come è di anni di ricerche e studi, oltre a essere ulteriormente impreziosito da una profonda e sentita prefazione del giornalista Gian Antonio Stella e da una introduzione inedita e postuma scritta dall’ex segretario del partito comunista italiano Alessandro Natta.

Con Barnabà, siciliano da anni residente a Ventimiglia e profondamente amato dai suoi ormai conterranei liguri, abbiamo parlato, discorrendo del libro, d’immigrazione, di politica e di storia, provando a mettere a confronto due secoli solo apparentemente così distanti. Il risultato di questa chiacchierata, per molti versi illuminante, è spiazzante: la durezza dei tempi odierni e la crescente xenofobia, in Italia, verso lo straniero ma, più in generale, verso colui che ci appare “diverso”, sembra perfettamente e drammaticamente ricalcare gli anni che portarono ad Aigues-Mortes e quelli successivi, che culminarono nel bagno di sangue della seconda guerra mondiale.

Enzo Barnabà, perchè questo libro?
Per due motivi. Intanto perché trovo intollerabile che frotte di turisti percorrano allegramente le strade di Aigues-Mortes senza essere sfiorati dal sospetto di trovarsi nei luoghi che furono teatro dello scatenarsi della più ignobile follia omicida. E inoltre perché il diffondersi della xenofobia è sotto gli occhi di tutti; non è male ricordare che siamo stati un popolo di emigrati che ha subito le ferite del razzismo.

L’eccidio di Aigues-Mortes e le sue cause sono da tempo rimossi dalla memoria nazionale. Puoi descrivere quei giorni drammatici e spiegarci il perché di questa rimozione?
La sadica violenza dell’eccidio colpì profondamente l’opinione pubblica italiana. Si sfiorò il rischio di passare dalla guerra doganale in corso tra i due Paesi a quella guerreggiata. Le manifestazioni spontanee che si registrarono in tutta la penisola (durissime quelle di Roma e di Napoli) furono cavalcate da Crispi e dalla Corte per fare cadere Giolitti e mettere in atto la svolta reazionaria, il colpo di stato larvato, da cui il Paese si libererà soltanto qualche anno dopo, con la cosiddetta crisi di fine secolo.
La memoria storica dei popoli è, ahimé, selettiva e non è piacevole ricordare che prima di diventare un Paese d’immigrazione siamo stati un Paese di emigrazione. Se comunque in Francia la rimozione è stata totale, direi che in Italia è stata parziale. In realtà, da noi l’eccidio è sempre più o meno stato citato dai manuali di storia, ma i fatti erano conosciuti poco e male. Ancora recentemente si è scritto di centinaia di morti. Le ricostruzioni sommarie e imprecise sono state la regola.

Che cosa ha significato allora l’eccidio e quali valori può ispirare all’Italia incattivita di oggi?
Per i socialisti italiani e francesi l’eccidio fu un campanello d’allarme che pose drammaticamente il problema dell’internazionalismo, che poi in soldoni era quello politico della difesa del proletariato in quanto tale (autoctono e immigrato che fosse) piuttosto che quella del solo proletariato nazionale.
La destra francese voleva estendere il protezionismo alla manodopera (“Se proteggiamo le nostre pecore, dobbiamo a maggior ragione proteggere il lavoro nazionale” sosteneva Barrès) mentre al padronato la concorrenza tra lavoratori faceva comodo. I meccanismi non sono molto cambiati, come si vede.

Al termine dell’ottima prefazione di Gian Antonio Stella, il giornalista si augura con forza che mai più abbiano a ripetersi episodi come quello di Aigues-Mortes. Tu temi che il germe della xenofobia possa, prima o poi, provocare nel nostro Paese un simile dramma?
Piccoli pogrom avvengono tutti i giorni nell’Italia di oggi. Se si leggono i giornali boulangisti francesi di 120 anni fa e quelli leghisti di oggi, si ritroveranno le stesse parole, gli stessi argomenti: è davvero sorprendente. La paura e il disprezzo del diverso non possono che alimentare, oggi come ieri, sadismo e violenza. Agli storici è ben noto come, nei periodi connotati dalla recessione, la xenofobia esca dallo stato di latenza. Oggi, il quadro economico alimenta la guerra tra i poveri e anche quel meccanismo psicologico che spinge a vedere nell’immigrato il piedistallo su cui montare per cercare di sfuggire all’emarginazione. Il quadro politico, poi, non è dei migliori: basta dare uno sguardo a quanto Stella dice di Berlusconi e del suo governo nella prefazione al saggio.

Da quanti anni studi i fatti di Aigues-Mortes e che cosa, in particolare, ti ha spinto a dedicare così ampia parte della tua vita a questo episodio avvenuto oltre un secolo fa?
Un pannello stradale che indicava "Aigues-Mortes" svolse negli Anni ‘70 la funzione della madeleine. Mi balzarono in mente l'aula del liceo, il professore di storia e il libro di testo che dedicava due righe alla strage. Volli saperne di più. Le pubblicazioni italiane erano con ogni evidenza imprecise e quelle francesi desolatamente reticenti. Insegnavo in un liceo di Nîmes, il capoluogo del dipartimento in cui si trova la cittadina in cui avvenne la strage e l'archivio dipartimentale si trovava a due passi. Dopo un paio di pomeriggi, aprivo il "dossier Aigues-Mortes", un centinaio di documenti che da quasi un secolo nessuno aveva più preso in mano. Fortuna o fiuto, non saprei dire.
Ho poi con una certa pignoleria continuato le ricerche. Per dieci anni ho utilizzato buona parte delle mie ferie per andare in giro tra archivi ed emeroteche: Parigi, Marsiglia, la stessa Aigues-Mortes, Angloulême (dove si svolse il processo farsa) e poi Roma, Milano, Torino (la maggioranza dei morti e dei feriti proveniva dal Piemonte), ecc. Mi ha aiutato il fatto di essere bilingue e biculturale. Abitualmente, lo storico italiano ha difficoltà a orientarsi con sicurezza tra i documenti francesi; e viceversa, naturalmente. Mi ha anche aiutato il fatto che la vicenda si sia svolta nel 1893, l'anno dei Fasci Siciliani, alla cui storia avevo già dedicato un libro.

C’è un politico italiano in particolare a cui consiglieresti la lettura del libro? Perché e quali effetti vorresti destare in lui?
A Gentilini, ma credo che non servirebbe a nulla. Lui e i suoi amici sono convinti che l’emigrazione italiana fosse diversa da quella straniera di oggi. Gli italiani, dicono, “portavano con loro duemila anni di civiltà”. Se sapesse qual era la percentuale di analfabeti! Credo che non riesca neppure a immaginarlo.

A chi dedicheresti idealmente il tuo sforzo saggistico?
A chi pensa che la fatica dello storico sia un atto di civismo.